Il ruolo dell’Europa, una forza gentile

IL COMMENTO. Può esserci un ordine internazionale retto sull’egemonia di una forza o su un equilibrio di forze? È davvero esercizio di «realismo» quello di armarsi in vista del pericolo della guerra? In un recente libro («Cercando un paese innocente», edizione Città Nuova), l’ambasciatore Pasquale Ferrara, che pure del realismo della diplomazia è maestro, bolla come illusoria questa concezione di ordine.

La stessa cultura politica e giuridica moderna si regge in effetti sul convincimento che nemmeno l’ordine interno agli Stati si possa fondare sulla sola forza. Perfino il Leviatano di Hobbes, figura dello Stato moderno e icona della sua logica assolutistica, non è il vincitore di una fattuale guerra di tutti contro tutti, ma il destinatario di un patto di autorizzazione condiviso dai cittadini. La sua legittimazione a usare la spada riposa sul consenso e sui diritti degli individui. E, ancora all’alba della modernità politica, Blaise Pascal annotava che «la giustizia senza la forza è impotente; la forza senza la giustizia è tirannica. (…) Occorre dunque congiungere la giustizia e la forza, facendo in modo che quel che è giusto sia forte e quel che è forte sia giusto».

Ancora più radicale è, a riguardo, la riflessione di Simone Weil, che sottopone a suggestiva critica filosofica perfino l’idea che si possa usare della forza, magari per fine di bene. Commentando il poema fondativo dell’Iliade, la Weil ne coglie il centro nella forza: «La forza che sottomette gli uomini… La forza rende chiunque le è sottomesso pari a una cosa»; «nessuno la possiede veramente. Nell’Iliade gli uomini non sono divisi in vinti, schiavi, supplici da un lato e in vincitori, capi dall’altro; non vi è un solo uomo che non sia in qualche momento costretto a piegarsi alla forza». E, in effetti, sul piano logico, nessun ordine che sia basato sulla forza può davvero stabilizzarsi, se non altro perché la forza è un criterio che ammette sempre la prova fattuale contraria e chiunque, anche il più forte, attraversa il momento della fragilità.

La critica all’illusorietà della forza può essere estesa alla logica della deterrenza, quella per cui si pensa di proteggere la pace esibendo un potenziale bellico sempre maggiore, con ciò innescando però una logica incrementale perversa, in cui una piccola scintilla o anche un incidente possono agire da detonatore di una catastrofe. E ciò è tanto più vero da quando la dotazione tecnica della forza bellica comprende l’arma atomica, il cui potenziale distruttivo dovrebbe essere - ma evidentemente non è - un deterrente più che sufficiente. Ora, in nome della deterrenza, non basta avere l’atomica: per essere presi sul serio, occorre dirsi disinvoltamente pronti ad usarla, magari sotto forma di «armi tattiche nucleari», e via fino alla prossima soglia… L’atomica, come ha insegnato il filosofo Umberto Curi, trasforma in radice l’essenza della politica: se questa è infatti legata, fin dall’origine etimologica, al «polemos», e cioè al conflitto, con l’avvento dell’atomica la guerra perde potenzialità trasformative morfogenetiche (capaci cioè di generare nuove identità politiche) e diviene pura distruzione. Proprio questa minaccia nucleare, per Curi, spinge a pensare l’ordine politico attorno alla fraternità, che, al contrario della forza, scaturisce dalla coscienza della comune vulnerabilità dell’umanità e del creato. A questa conversione è orientata, dall’origine, l’Ue, «forza gentile». Il suo contributo all’ordine internazionale non può essere quello di infeudarsi a una forza egemone.

Come scriveva Albert Camus, la sua logica è piuttosto quella della «misura», contro la dismisura del mondo dei blocchi e la riduzione idolatrica del plurale all’uno. L’identità europea la sospinge alla promozione del pluralismo, del dialogo e della mediazione. Quando cede a un’idea semplificata di Occidente, l’Europa va incontro alla sua stessa amputazione. L’Europa sul piede di guerra fa regredire il mondo e regredisce essa stessa, entrando in contraddizione con la sua ragione sociale.

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