Il Venezuela
dramma già visto

Nell’osservare la crisi del Venezuela, di ora in ora più drammatica, è impossibile non provare un’amara sensazione di già visto. Non ci ricorda una delle rivoluzioni colorate che in questi ultimi decenni hanno cambiato il panorama politico di tanti Paesi, dalla Georgia all’Ucraina per fare solo due esempi? La sceneggiatura è sempre la stessa: c’è al potere un «cattivo» che fa un sacco di pasticci, l’Occidente scova un «buono» (anche se l’opposizione è stata spesso molto «cattiva» a sua volta) e lo appoggia. Sullo sfondo, interessi geopolitici ed economici così chiari da mandare a monte la recita.

Nel caso del Venezuela, poi, si ripete pari pari lo schieramento già visto in Siria: Russia, Iran, Turchia e Cina appoggiano Nicolàs Maduro, il «cattivo», mentre gli Usa di Donald Trump (con Colombia, Brasile, Argentina, Perù, Paraguay, Guatemala, Costa Rica, Honduras e Panama) chiedono che si faccia da parte e lasci il posto al «buono» Juan Gerardo Guaidò, presidente dell’Assemblea nazionale, il Parlamento monocamerale definito dalla Costituzione del 1999, esautorato nel 2017 da un’Assemblea costituente. L’Unione Europea fa la solita figura. Dà gli otto giorni, nel senso che chiede entro quel termine la convocazione di elezioni libere e credibili. Ma chi le dovrebbe gestire, e quindi rendere tali? Il presidente in carica Maduro o quello autoproclamato Guaidò? Mistero. A Bruxelles in realtà si tifa Guaidò, l’idea delle elezioni (quale Paese si farebbe imporre un voto dall’esterno?) è un trucchetto per non sembrare troppo al traino degli Usa.

Problema che non si pone il vice premier, ministro degli Interni e leader della Lega Nord Matteo Salvini, che tifa per la cacciata di Maduro. L’altro azionista del Governo, il M5S, in passato toccato dalla simpatia per il chavismo, osserva e tace.

Ci troviamo così di fronte all’ennesimo caso di Paese preso tra l’incudine e il martello. L’incudine è quella di una crisi economica e istituzionale vera, riassumibile in pochi dati: povertà che tocca ormai il 90% della popolazione, inflazione al 10 milioni per cento, Pil crollato del 16% in un anno, produzione di petrolio (massima fonte di ricchezza del Paese) ai minimi storici, tre milioni di persone fuggite all’estero dal 2015 a oggi, ultimo Paese dell’America Latina per libertà d’espressione nel 2018 secondo il World Press Freedom Index. Il martello è quello di un’ingerenza esterna, in particolare americana, così palese da essere addirittura rivendicata. E non è che gli Usa possano vantare grandi successi, quando hanno deciso di esportare la democrazia.

Questa crisi, in ogni caso, viene da lontano. Hugo Chavez s’insediò in Venezuela e divenne con successo un motore del multipolarismo internazionale dopo che la presidenza Bush aveva trasferito in Medio Oriente il baricentro della politica americana e Barack Obama l’aveva spostato verso il Pacifico. E mentre Washington guardava altrove, Cina e Russia cominciavano a mettere radici in un continente che, trainato dal duo Venezuela-Cuba, sembrava volersi sbarazzare della pesante influenza americana. Chavez ebbe dalla sua un decennio di prezzi alti del petrolio, con cui potè finanziare quei progetti sociali che, più o meno riusciti, fecero parlare di un nuovo modello di governo. Non ebbe però la lungimiranza di capire che anche quel boom poteva finire e che l’economia nazionale aveva bisogno di una profonda e urgente riforma per ridurre la dipendenza dalle quotazioni del greggio e, quindi, dalle fluttuazioni di un mercato internazionale su cui il Venezuela aveva una molto relativa influenza. Chavez è morto e ha lasciato a Maduro e ai venezuelani tutte le conseguenze.

Anche in questo c’è qualcosa di già visto. Non sono pochi i Paesi alle prese con lo stesso problema. Russia e Arabia Saudita, per esempio. Ma il Venezuela, purtroppo per Maduro, non ha il peso geopolitico della Russia né gli appoggi mercantili e politici dei sauditi. Donald Trump cerca ora di recuperare la tradizione che vuole l’America Latina a disposizione come «cortile di casa» degli Stati Uniti. E in quel cortile non c’è spazio per gli amici della Russia vittoriosa in Siria o della Cina delle guerre commerciali.

Il tutto, ovviamente, sulla pelle dei venezuelani, come già in passato su quella di altri popoli.

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