Imprese e Quirinale
Draghi resta centrale

«Il vostro programma è il mio programma!» esclamava un trionfante Silvio Berlusconi al culmine di un’assemblea di Confindustria di parecchi anni fa a Parma. Benché il vertice confindustriale fosse schierato apertamente con il governo di centrodestra presieduto dal Cavaliere, in quell’occasione una parte di platea si alzò per applaudire freneticamente «l’amico Silvio» ma un’altra parte, abbondante, rimase seduta, immusonita e a braccia conserte. Berlusconi, si sa, provocava grandi amori e grandi odi. Draghi no. Mario Draghi l’altro giorno al palazzo dello Sport di Roma, all’assemblea della Confindustria di Carlo Bonomi, è stato applaudito da un’intera platea tutta in piedi con un’ovazione da stadio così insistita e lunga da mettere in imbarazzo il premier, persona come è noto poco incline a eccessi di ogni tipo. Anche il presidente degli imprenditori italiani si è unito alla standing ovation allontanandosi dal podio e avvicinandosi alla prima fila dell’assemblea.

E tanto per essere chiari, Bonomi di lì a poco ha paragonato Draghi ad Alcide De Gasperi e a Carlo Azeglio Ciampi, praticamente un altro padre della Patria: «Uomo della necessità» che non è proprio «della Provvidenza» ma ci si avvicina molto. Quel che poi ha colpito, nel discorso del leader confindustriale, è che Bonomi ha separato il giudizio su Draghi da quello sui partiti che lo sorreggono; affidando al primo il compito di guidare l’Italia fino al 2023 e magari anche oltre per superare la crisi pandemica e rimettere in piedi il Paese e la sua economia; e trattando i secondi come un fattore di intralcio e di ritardo: quelli de «i giochetti». Insomma l’idea di Bonomi è che le parti sociali, il mondo del lavoro nel suo complesso, devono unirsi al governo per trascinare l’Italia sperando che i partiti non si mettano troppo di traverso.

Certo non è difficile ricordare che il governo Draghi è nato dal fallimento della politica e per la volontà del Capo dello Stato (e della comunità internazionale) nel mezzo di una pandemia devastante e di una legislatura nata sbilenca e cresciuta peggio. La rottamazione dei partiti e, di conseguenza, del Parlamento è sicuramente qualcosa che Draghi - che è un sincero democratico liberal riformista - non vuole, anche se il suo motto «il governo va avanti, il confronto politico lo lascio ai partiti» potrebbe far pensare ad una valutazione sprezzantemente negativa nei confronti di chi lo sostiene (e forse sarebbe meglio dire: è costretto a sostenerlo). Sta di fatto che il «patto» tra produttori caldeggiato da Confindustria è prima di tutto nelle sue corde: lo aveva più volte invocato e all’assemblea della Confindustria lo ha esposto e spiegato per bene. Per Draghi è quello il vero motore della ripresa: un governo efficiente che fissa nuove regole e imprenditori e sindacati che, ognuno per la sua parte, si mettono a remare per lo sviluppo. Ai partiti cosa resta, se non far alzare la mano ai loro deputati e senatori quando si tratta di approvare alla Camera e al Senato i disegni di legge e i decreti che piovono da Palazzo Chigi?

Infine la partita del Quirinale. Draghi è il candidato numero uno a succedere a Sergio Mattarella. Ma il progetto di molti sarebbe quello di lasciarlo a Palazzo Chigi almeno altri due anni, andando così a votare non prima della scadenza naturale della legislatura, e nel frattempo chiedere a Mattarella di fare la cortesia di restare temporaneamente al suo posto, cosa che però il Capo dello Stato ha spiegato più volte di non poter e di non voler fare. Come si comporrà questo puzzle? Non si sa ancora. Una cosa però è certa. Che «l’uomo della necessità» rimarrà al centro di tutto.

© RIPRODUZIONE RISERVATA