Indagato non significa condannato, la direttiva dell’Europa una lezione per l’Italia

Dovrebbe essere ovvio, ma non lo è. A provvedimenti diversi corrispondono condizioni diverse: una persona che riceve un avviso di garanzia (strumento a tutela della stessa persona) non è ancora condannata. Sarebbe bastato l’articolo 27 della Costituzione, che garantisce la presunzione d’innocenza, e non di colpevolezza, fino a sentenza definitiva. Nel senso comune - per gravi responsabilità del circo mediatico giudiziario - l’indagato è invece già un condannato. «Avrà comunque fatto qualcosa se ha ricevuto un avviso di garanzia» è il distorto e inquinato pensiero che anticipa senza prudenza e senza tutele l’iter giudiziario. Non sono bastati i tanti casi di persone indagate o processate ma poi prosciolte o assolte per curare questa malattia del giudizio.

In settimana il Consiglio dei ministri presieduto da Mario Draghi ha approvato un decreto legislativo che recepisce finalmente la direttiva Ue del 2016 contro la giustizia show e per la tutela della presunzione d’innocenza, un giro di vite che si spera metta fine alla cultura del sospetto («non è l’anticamera della verità, ma del khomeinismo» diceva Giovanni Falcone) che ha colpito troppe persone, la cui reputazione è stata rovinata da indagini e processi finiti nel nulla.

Il testo modifica il nostro codice di procedura penale inserendo un nuovo articolo 115-bis («Garanzia della presunzione d’innocenza») che impone ai magistrati di «pesare» le parole. Perché, recita il testo, non possono «indicare pubblicamente l’indagato come colpevole», in un atto che non sia una sentenza, ma anche solo in un’intervista, a pena di richieste da parte dell’interessato di «rettifica della dichiarazione resa» entro 48 ore. Ma non solo: in questi casi sono previste anche conseguenze disciplinari e il risarcimento danni a carico di chi indaga.

Molta prudenza, d’ora in avanti, è richiesta pure nelle ordinanze di applicazione di misure cautelari: l’autorità giudiziaria dovrà limitare «i riferimenti alla colpevolezza della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato alle sole indicazioni necessarie a soddisfare i presupposti, i requisiti e le altre condizioni richieste dalla legge per l’adozione del provvedimento». In Italia peraltro c’è un abuso della carcerazione preventiva, condizione nella quale si trova il 35% dei detenuti: il 20% poi, secondo la media storica, viene prosciolto.

Il decreto agisce anche sul fronte della comunicazione, prevedendo che «la diffusione di informazioni sui procedimenti penali è consentita soltanto quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre rilevanti ragioni di interesse pubblico». Inoltre «è fatto divieto di assegnare ai procedimenti pendenti denominazioni lesive della presunzione di innocenza». Come Mafia Capitale (il reato di associazione mafiosa a processo è caduto) o Pizza Connection.

Il Csm ha dato parere positivo al decreto, esclusi i consiglieri Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita. Prevede inoltre che il Procuratore capo mantenga «i rapporti con gli organi di informazione esclusivamente tramite comunicati ufficiali oppure, nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, conferenze stampa». Un obbligo che però porrà limiti ai giornalisti che vogliono approfondire informazioni diffuse solo tramite comunicati. E non basterà a fermare la cattiva abitudine di carte sulle inchieste (comprese le intercettazioni, anche quelle non penalmente rilevanti) che sottobanco finiscono nelle mani dei cronisti. Ma sul rispetto del dettato legislativo vigilerà il Procuratore generale presso la Corte d’Appello, inviando una relazione almeno annuale alla Cassazione, che potrà istruire procedimenti disciplinari. Speriamo basti a voltare pagina.

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