Inghilterra vietata alle università italiane

Ultime da Boris Johnson, il premier in caduta di consensi che ha trasformato Downing Street in una fabbrica di provvedimenti xenofobi quanto meno bizzarri per far dimenticare il «Partygate» (lo scandalo legato alla sua partecipazione a un festino in piena pandemia) e soprattutto la crisi economica in cui versano i sudditi di Sua Maestà: dal prossimo 30 maggio il governo britannico lancerà un «Visto speciale» per i laureati di tutto il mondo che intendano trasferirsi, per motivi di studio o lavoro, nel Regno Unito.

Questi dovranno provenire dalla «crème de la crème» dell’universo dei migliori atenei mondiali. Ma nella lista dei «migliori atenei» stilati dai collaboratori del primo ministro non c’è traccia delle università italiane. L’editto naturalmente si inserisce nelle misure post-Brexit e va in cerca di quei consensi che Johnson sta perdendo a rotta di collo, anche in quelle circoscrizioni che erano state strappate ai laburisti come Sunderland, città del Nord operaio, o Southampton nel Sud, oltre al West Oxfordshire, feudo dell’ex primo ministro tory David Cameron.

E così i laureati italiani sono diventati peggio degli extracomunitari: non possono nemmeno sbarcare sull’Isola, quella che è stata per secoli il simbolo della democrazia, della liberalità, dell’accoglienza e dell’integrazione. Il Visto speciale servirà a selezionare «individui di alto profilo» che potranno soggiornare due anni, tre se hanno il dottorato di ricerca. Ma il titolo di studio, come detto, non basta. Bisogna essere nell’elenco delle «migliori università del mondo». Una lista piuttosto misteriosa ed esoterica, compilata non si sa bene in che modo e con quali criteri, poiché mancano gli atenei italiani, anche quelli eccellenti (in cui compare certamente l’università di Bergamo) e persino quelli universalmente conosciuti come i Politecnici di Milano e Torino e la Bocconi di Milano. L’Inghilterra ritiene graditi solo i laureati provenienti dai 37 atenei considerati i migliori del mondo, il cui rank è stilato dal Times Higher Education, dalla «QS World University Rankings» e dalla «Academic Ranking of World Universities». I college statunitensi (Harvard, Yale e i «soliti» noti) restano in cima alle preferenze mentre sono solo cinque le università europee in lista: i due Politecnici svizzeri, ossia quello di Losanna e quello di Zurigo, l’Università di Monaco in Germania, quella di Scienze e Lettere di Parigi - che è l’ex École Normale Superieure – e (chissà perché, forse un tocco biondo scandinavo) la Karolinska di Stoccolma.

La domanda sorge spontanea: chi valuta il rank delle agenzie che hanno valutato il rank? Con quali criteri (certamente i più bizzarri) hanno operato le tre agenzie di valutazione? Noi una risposta l’abbiamo: criteri politici. È poi curioso che nelle classifiche i tre giudici degli atenei si siano fermati al numero 37. Una cabala che non sta in piedi e che serve solo a riflettere sugli esiti di una politica xenofoba che finisce per colpire anche i livelli più alti dell’immigrazione intellettuale. E che ci serve a riflettere fin dove si può arrivare quando si mettono in atto politiche sovraniste, antieuropee e con un vago sapore di razzismo. Intellettuale certo, ma sempre razzismo. Meditate, sovranisti all’italiana, meditate.

A proposito, se l’Italia dovesse applicare una misura eguale e contraria nei confronti degli inglesi si salverebbero pochi laureati, probabilmente quelli delle università di Oxford e Cambridge, tradizionale vivaio dei rampolli della «upper class». Perché per il resto farebbero la fine che hanno destinato agli italiani. Con dati veri ed evidenze di fatto, stavolta.

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