Kazakhstan, il ruolo
potente della Cina

Il Kazakhstan, come ormai tutti sanno, sta vivendo la più aspra e cruenta stagione di violenza della sua trentennale storia post-sovietica. Ma non solo. La rivolta è scoppiata nelle stesse ore in diverse città del Paese, è arrivata assai presto ad armarsi, ha dato l’assalto in modo molto organizzato a stazioni di polizia, aeroporti, televisioni ed edifici pubblici, ha mobilitato gli operai delle grandi aziende metallurgiche, infine ha partorito un Fronte di liberazione del Kazakhstan che promette, e potrebbe anche mantenere, una stagione di lotta armata. In più, il Kazakhstan non è un Paese qualunque. È stretto tra Russia e Cina ed è il più grande Stato al mondo senza uno sbocco al mare, è vasto quanto l’Europa occidentale ma con solo 19 milioni di abitanti, ha grandi risorse energetiche ed è il primo estrattore al mondo di uranio (42% del totale), ospita sul proprio territorio il cosmodromo russo di Baikonur.

Una miscela potenzialmente esplosiva che infatti ha richiamato sugli eventi le interpretazioni più diverse. Molte fantasiose, alcune addirittura grottesche. Per quel poco che ancora se ne sa, l’ipotesi più credibile resta quella di un gigantesco regolamento di conti interno, tra il potente clan dell’ex presidente Nursultan Nazarbaiev (notabile sovietico, poi presidente per 29 anni e fino all’altroieri ancora capo del Consiglio di sicurezza nazionale) e i nuovi poteri, rappresentati dal debole presidente Tokaev, insediato dallo stesso Nazarbaiev nel 2019. Il tutto sullo sfondo di un Paese diviso tra l’oligarchia del denaro spuntata all’ombra del presidentissimo e strati sociali esclusi a prescindere da un benessere in potenza allargabile a tutti. Riesce davvero difficile credere a una «rivoluzione colorata» di tipo ucraino, alla quale alludono Mosca e Pechino come d’abitudine quando gli scossoni investono i Paesi a loro legati. E ancor più difficile pensare a un tortuoso piano del Cremlino per impadronirsi del Kazakhstan e aggiungere una casella al piano di rinascita dell’Urss, come gridano i dissidenti kazaki forse nella speranza di trovare una sponda negli Usa e nella Ue.

Due considerazioni, comunque, s’impongono anche in queste ore in cui le sparatorie continuano e il presidente Tokaev invita polizia ed esercito a sparare per uccidere e senza preavviso.

La prima è che continua lo sfrangiamento del cosiddetto «estero vicino» di Mosca, ovvero quei Paesi nati dalla dissoluzione dell’Urss e che per il Cremlino sono di particolare interesse strategico. L’Ucraina nel 2014, la Bielorussia nel 2020, il Kazakhstan nel 2022: non si può spiegare tutto con maneggi organizzati all’estero. E l’attuale missione militare, in un certo senso «dovuta», presenta per Mosca più rischi che vantaggi.

La seconda è il ruolo silente ma potente della Cina, che ha fatto grandi investimenti in Kazakhstan e da anni persegue una politica di espansione nell’Asia Centrale. Xi Jinping si è complimentato con Tokaev per le misure di repressione, facendo capire come la pensa. Ma fatti come questi, per Pechino, sono incidenti di percorso, rischi del mestiere. La dirigenza cinese ha lo sguardo puntato al momento in cui, garantitosi un accesso diretto e sicuro alle sterminate risorse naturali del Kazakhstan, potrà sfidare con strumenti nuovi e più potenti, la supremazia americana.

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