La crisi tedesca fa bene all’Europa

ECONOMIA. Attualmente in Germania circa il 15% dei 50 milioni di conti correnti delle Casse di Risparmio è in rosso. L’inflazione erode i bilanci familiari, gli affitti aumentano e soprattutto la bolletta del gas e della luce fa sentire il suo peso.

Il costo del denaro blocca gli investimenti e quindi la crescita dell’economia. La Germania si è europeizzata. Cioè è entrata nella media dei Paesi europei con i suoi alti e bassi. Nel secondo trimestre Berlino registra una crescita piatta, secondo i dati Ocse, mentre l’Italia segna meno 0,3%. L’Eurozona è a rischio recessione e anche i falchi della Bce guidati tradizionalmente dalla Bundesbank tedesca sono diventati prudenti. La normalizzazione tedesca fa bene all’Europa nel suo insieme perché contribuisce ad una maggiore uniformità del tessuto economico dell’Unione europea.

Di fatto, si constata che nessuno dei Paesi membri è in grado di raggiungere i livelli tedeschi e che quindi il calo della Germania è un’occasione per rendere più omogenee le politiche economiche europee. Per farla breve, se alla Banca Centrale Europea i Paesi più in difficoltà sono per una pausa nell’aumento dei tassi di interesse in funzione antinflazionistica, il presidente della Bundesbank Joachim Nagel questa volta non rema contro come prima e ascolta le ragioni altrui.

I prestiti e depositi a luglio nell’Eurozona sono in calo, il credito ai minimi dal 2010 e la Germania è nel gruppo. Le ragioni degli altri sono diventate anche quelle di Berlino tipiche di un’economia non più prima della classe. L’appartenenza all’Unione europea ha costituito per molti Stati una grande opportunità di crescita e la Germania è quella che più di tutte ha saputo capitalizzarla. L’errore della dirigenza degli ultimi venticinque anni, cioè del dopo Kohl, è stato non condividere i propri successi e alzare il dito di rimprovero. Fare dell’Europa un luogo di trattativa fra governi, dove inevitabilmente il più forte ha l’ultima parola, porta a controreazioni.

Dopo il predominio della Cina a livello globale, i singoli Stati Ue diventano terreno di caccia per le economie egemoni come quella tedesca, favorite dalla moneta unica. La percezione è un accerchiamento economico a tenaglia. Le piccole imprese messe fuori mercato dalla concorrenza a basso costo dei prodotti cinesi e le grandi sottomesse all’egemonia della grande industria tedesca.

La conseguenza per l’Italia è stata la riduzione dei salari e l’erosione del ceto medio, in generale uno sfilacciamento del tessuto sociale con crescenti diseguaglianze. Se a questo aggiungiamo il malessere di chi si sente escluso dalla possibilità di migliorare e vede al contempo la sua posizione minacciata dall’arrivo di migranti, è facile capire come anche in Europa il populismo abbia potuto attecchire.

La Germania in ragione della sua prosperità è rimasta sino a ieri solo lambita dal contagio. Alle elezioni del 2021 l’AfD della destra nostalgica e nazista, ha ottenuto circa il 10% dei consensi. Adesso è in forte crescita, oltre il 20%. I cristiano democratici non riescono a far barriera e le difficoltà del governo rosso-giallo-verde danno spazio alla protesta. Non ci sono soldi per la digitalizzazione della scuola, mentre le imprese delocalizzano. La guerra in Ucraina ha scoperto il grande bluff dei primi della classe. Bassi prezzi del gas con accordi con la Russia imperiale di Putin, grandi scambi privilegiati con la Cina comunista.

Il concetto era chiaro: l’export come l’arma strategica di penetrazione mondiale. Una nuova potenza all’insegna della forza economica. La crisi tedesca di adesso nasce anche da questa disillusione. Le fasi di passaggio sono sempre critiche. La Germania ritornerà grande ma questa volta sarà finalmente europea.

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