L'Editoriale / Bergamo Città
Martedì 30 Dicembre 2025
La cultura del «noi» e la «grande Bergamo»
IL COMMENTO. L’intervista a Franco Cortesi, pubblicata su questo giornale, mette sul tavolo - senza giri di parole - una questione che oggi chiede di essere affrontata con realismo: la forma della città è diventata un tema «prepolitico», perché riguarda la vita concreta del territorio prima ancora delle appartenenze.
Il punto, però, è che proprio per questo il tema muore ogni volta che lo trasformiamo in una gara di titolarità: chi lo guida, chi lo firma, chi se lo «intesta». La parola «intestarsi» è comprensibile: ogni progetto ha bisogno di responsabilità visibili. Ma se «Grande Bergamo» resta dentro quella logica, rischia di ridursi a una contesa di primati, invece di aprire un percorso condiviso. Perché l’area vasta non è un’opera inaugurabile: è un patto di fiducia, prima ancora che un dispositivo istituzionale. Qui il punto non è «vincere» una discussione, ma mettere in moto un percorso. All’inizio ci saranno resistenze, diffidenze, correzioni necessarie: è normale. Anormale è restare fermi finché non esiste la soluzione perfetta, o finché non si trova una soluzione che accontenti un singolo soggetto istituzionale o un interesse di parte.
Anormale è restare fermi finché non esiste la soluzione perfetta, o finché non si trova una soluzione che accontenti un singolo soggetto istituzionale o un interesse di parte
Le domande da cui partire
Ed è importante che si capisca un punto: non si può partire dal perimetro. Prima dei confini viene una domanda più esigente e più decisiva: che cosa vogliamo che diventi, nei prossimi venti o trent’anni, quest’area vasta? Quale identità urbana e territoriale; quale rapporto tra città, cintura e valli; quale idea di accessibilità, servizi, abitare, spazio pubblico, qualità ambientale. E quale idea di innovazione e competenze, ma come rete tra università, imprese, istituzioni e società.
Solo quando questa direzione è chiara – e condivisa – i confini smettono di essere materia di competizione e diventano la conseguenza naturale di una scelta: un perimetro funzionale, non un recinto. Finora, troppo spesso, si è tentato il percorso inverso.
Proprio per questo oggi serve un lavoro collettivo e convergente, che coinvolga istituzioni e corpi intermedi, sistema economico e mondo sociale, quartieri e comunità locali; e serve anche la capacità – che un’università conosce bene – di costruire una visione fondata su conoscenza, dati, valutazione degli impatti.
Proprio per questo oggi serve un lavoro collettivo e convergente, che coinvolga istituzioni e corpi intermedi, sistema economico e mondo sociale, quartieri e comunità locali; e serve anche la capacità – che un’università conosce bene – di costruire una visione fondata su conoscenza, dati, valutazione degli impatti.
C’è una pagina, in un diario del 1960, che sembra scritta per oggi. L’allora sindaco Tino Simoncini, che in quegli anni, come ha ricordato Cortesi, tentò di dare forma a un coordinamento stabile tra Comuni, dopo una riunione del Consorzio di coordinamento urbanistico (una «Grande Bergamo» ante litteram), annotava una condizione essenziale: «Affinché possa essere concretamente efficace, occorrerà del tempo e, più che altro, un miglioramento delle mentalità». Poi registrava lo scarto tra propositi e intenzioni, quando ciascuno finisce per rientrare nel recinto del proprio piccolo problema. È una lezione asciutta: l’area vasta non fallisce per mancanza di buone intenzioni, ma per eccesso di particolarismi; non si inceppa perché non esistono strumenti, ma perché manca la cultura del «noi» quando le decisioni diventano impegnative.
Oggi questa tentazione è ancor più pericolosa. Le parole sono cambiate - sostenibilità, rigenerazione, mobilità integrata, attrattività - ma il riflesso è lo stesso: discutere di confini e competenze, come se la città reale stesse ferma ad aspettare. Invece si muove ogni giorno: negli spostamenti, nel costo dell’abitare, nella ricerca di servizi, nella pressione sul suolo, nella fatica di tenere insieme tempi di lavoro e tempi di vita. Governare tutto questo a compartimenti non è autonomia: è frammentazione.
Le parole sono cambiate - sostenibilità, rigenerazione, mobilità integrata, attrattività - ma il riflesso è lo stesso: discutere di confini e competenze, come se la città reale stesse ferma ad aspettare
È qui che la citazione dell’editoriale del rettore Sergio Cavalieri, evocata da Cortesi, diventa un avvertimento da non addomesticare: se le eccellenze non vengono collegate in un disegno comune, rischiamo «tante oasi in un deserto». L’immagine è potente perché è scomoda: le oasi possono essere splendide – università, imprese, sanità, cultura – ma se intorno cresce il deserto, l’eccellenza si trasforma in enclave. E una città di enclave smette di includere.
Per questo «Grande» va sottratto alle caricature. Non è affatto detto che una Grande Bergamo debba essere una Bergamo «più grande» per dimensioni o per annessioni. «Grande» può voler dire un’altra cosa: capacità di fare sistema. Capacità di tenere insieme scelte coerenti, di durata pluriennale, comprensibili e verificabili. Capacità di trasformare l’interdipendenza di fatto in governo consapevole e finalmente «territoriale».
Bergamo e la sua provincia dispongono di un capitale territoriale raro: istituzioni solide, imprese sane, un’università aperta al mondo, un volontariato che tiene insieme la comunità. Metterlo a sistema è la vera sfida.
Il momento del «salto»
Ecco perché questo è il momento del «salto». Un salto che non consiste (solo) nel «dichiarare» la Grande Bergamo, ma nel costruirne il senso: definire futuro e identità dell’area vasta, e dopo trarne le conseguenze in termini di confini e strumenti. Se si capovolge ancora l’ordine si ripeterà un esito già noto. Se invece istituzioni, economia, università e società civile sanno ritrovarsi attorno a un orizzonte comune, l’area vasta può diventare un processo virtuoso e corale, capace di durare. È qui che la «Grande Bergamo» trova senso: in quel «miglioramento delle mentalità» di cui, con sagacia, scriveva Simoncini, come scelta di passare dal particolare al comune e dall’orgoglio alla fiducia. E farlo adesso, non per noi soltanto: per chi verrà.
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