La cultura machista vergogna senza sconti

ITALIA. Quando si digita una ricerca su Google senza modificarne le impostazioni, l’algoritmo suggerisce il completamento della ricerca, sulla base dei cosiddetti «trend» ossia delle domande al momento più diffuse.

Fino a ieri sera, se provavate a digitare «come si chiama» (magari per cercare – che so - il nome di un personaggio storico, o un artista, o l’inventore di una ricetta) il primo algoritmo vi sparava il seguente suggerimento: «Come si chiama la ragazza violentata a Palermo». Voleva dire che era la domanda più frequente in Rete. Questo spinge a una riflessione: per quale motivo tante persone sentono il bisogno morboso di conoscere nome e cognome di una persona che ha vissuto uno stupro di gruppo nel quartiere della Vucciria? Che cosa cambia nel farsi un’idea dell’orrore di quel che è avvenuto? E soprattutto: quanti sono i minorenni che hanno avuto questa schifosa curiosità? Non c’è nessuna motivazione «sana» che spinge qualcuno a cercare nome e cognome (e magari la fotografia) di una persona che è stata violentata. In fondo è come se ci si rendesse moralmente complice – magari subconsciamente - del branco che ha stuprato la ragazza.

È un contesto malato quello in cui sono germinate le violenze di Palermo e di Caivano. Non che sia una novità: è dai tempi del delitto del Circeo che questo orrore aleggia sul nostro Paese, per rimanere agli ultimi decenni. Ma la cultura italiana sembra non aver fatto particolari progressi, soprattutto alla luce delle nuove tecnologie digitali, come i social network, che le hanno favorite anziché osteggiate. Del resto già Pasolini ci ricordava che sviluppo e progresso sono due parole diverse, perché non sempre lo sviluppo porta al progresso. Anzi. Vale anche per l’etica e la morale.

L’humus in cui germina una violenza orribile come lo stupro di gruppo può essere formato da tante cose. A Caivano, il Comune metropolitano di Napoli dove ne è avvenuto uno, lo è certamente il degrado. Il quartiere di Parco Verde, l’agglomerato di case verdastre dove si è recata (coraggiosamente) la premier Meloni per testimoniare la presenza dello Stato, sembra fatto per far nascere e poi proteggere qualsiasi branco. Un rione spento, un misto di vergogna e rassegnazione, dove manca tutto, a parte la droga, che abbonda, insieme alla fame. Le scuole sono poche e soprattutto poco frequentate, la dispersione scolastica presenta numeri da Quarto Mondo. E dove non c’è educazione, c’è il vuoto, può succedere di tutto, qualunque violenza può riempirlo. Le borgate della Vucciria e dell’Arenella di Palermo in fondo non sono molto diverse, con le loro zone grigie e le rovine fatiscenti che risalgono addirittura alla Seconda Guerra Mondiale. Sono un fondale perfetto per qualunque tipo di violenza. Lo sviluppo digitale delle nuove tecnologie, quelle che permettono ai video di circolare all’istante, di scambiarsi - nascondendosi dietro uno schermo e una tastiera - le proprie perversioni, si mescola al regresso architettonico e abitativo, in una miscela socialmente venefica. Lo stupro di gruppo è la patologia di un modo di pensare che deve cambiare. Il resto lo fa una cultura machista - eccessiva e stereotipata - che tende a sminuire le colpe e le responsabilità del violentatore come negli anni Cinquanta, quando le donne si vergognavano a denunciare e gli avvocati della difesa, nei pochi processi celebrati per il coraggio di chiedeva giustizia, asserivano nelle loro arringhe che la vittima «se l’è cercata».

La cultura machista è sempre in agguato. Forse chi la diffonde nemmeno se ne rende conto talmente ne è intriso il nostro Paese. Chi dice che se la donna non si ubriaca o non mette la minigonna il branco di lupi non arriva, forse nemmeno si rende conto che il branco di lupi non deve arrivare mai, nemmeno se la vittima si ubriaca. Inoltre, è stato fatto giustamente notare, richiamare l’idea del lupo – come in Cappuccetto Rosso - significa avallare l’idea che l’universo è un bosco popolato di maschi violenti sessualmente, che «la carne è carne», che a una minigonna non si può resistere e che dunque prima o poi un predatore dentro o fuori dal bosco lo trovi. Cambieremo mai questo modo di pensare? Questa assoluzione machista che finisce per colpevolizzare la vittima innocente? Dovrebbe essere compito delle agenzie educative: la televisione, i social, la famiglia (sempre più assente), la parrocchia e naturalmente la scuola. Insegnano a rispettare le donne i docenti di ogni ordine e grado? Contribuiscono a liberarci da una cultura machista che tratta le donne come bamboline, a un’esibizione di virilità che considera il maschio superiore e dominatore della femmina bella, provocante e stupida, una cultura che dovrebbe farci vergognare agli occhi del mondo?

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