La destra della Meloni
percepita come nuova

Giorgia Meloni sta vivendo un momento magico, che c’è se riesci a prenderlo, per via della progressiva crescita di consensi virtuali (derivano dai sondaggi) che pongono Fratelli d’Italia a ridosso della Lega. L’unica donna alla guida di un partito, e nel clima attuale conta, leader di una destra che ha lo zoccolo duro nella filiera Msi-An e che beneficia oggi di un ritorno di fiamma in tutti i sensi. Una crescita che pone un tema politico ai partiti: potrebbe rimodulare il centrodestra, aprendo una fase che non era stata concessa neppure a Fini, l’uomo che si era spinto più in là nell’abbandonare la casa del padre, cioè il retaggio neofascista. Uno scarto a destra, che dovrebbe imporre un aggiornamento anche al Pd di Letta che, nel replicare colpo su colpo a Salvini, rischia di sottovalutare ciò che si muove nel pancione umorale di una destra insieme sommersa e diffusa. Un cambio che avviene a 30 anni dallo scongelamento della destra durante Tangentopoli, mentre si consuma il lento appassire del berlusconismo e dopo la condivisione dell’infelice stagione di Trump.

L’impronta della Meloni sembra questa: spostamento a destra correggendo l’eredità di Fini, lessico determinato senza sbracare, un’ideologia simile ma non identica a quella di Salvini. Non populista ma nazionale e tradizionalista. Risultato finale: la guida dei conservatori europei, uno sdoganamento non di rottura ma all’interno delle storiche famiglie politiche. Lavori in corso nella vecchia-nuova destra, di cui il libro autobiografico della Meloni, «Io sono Giorgia», è una tappa significativa: operazione pop ben assestata, marketing politico, storytelling di successo. Sguardo intimistico e famigliare, mozione degli affetti sullo sfondo di un carattere che vuol rendersi rassicurante. Si coglie la distanza fra la ricaduta del potenziale elettorato e le risorse del partito: sia culturali sia di classe dirigente. In attesa di una parola chiara sul confine tra conservatorismo ed estrema destra. Non sorprende quindi lo shopping di parlamentari e consiglieri regionali anche in Lombardia, territori dove Fdi, romanocentrica e fino a ieri con retroterra culturale delimitato, non c’è più di tanto. La Meloni raccoglie i dividendi di non aver fatto parte di governi in questa legislatura: rappresenta l’alternativa incontaminata, declinata in modo responsabile e percepita come novità. Un’illusione ottica: Fdi è tutto fuorché nuovo. Succede invece che sia il «battaglione mobile» delle emozioni che vanno e vengono il segmento a far la differenza e che ha dirottato su Fdi una parte del voto in uscita da Berlusconi, lo smottamento grillino e la fuga parziale dalla Lega.

Salvini e Meloni gemelli diversi? Lui nato nella politica di strada, lei nel giovanilismo post-missino e organicamente di destra. Due parti in commedia dal forte attrito, eppure condannate a ritrovarsi lungo lo stesso orizzonte e a spartirsi il bottino. Salvini governativo, si sa, soffre e si sente assediato nella versione Lega di lotta: da un lato se rema contro è puntualmente anticipato dalla Meloni, dall’altro è stoppato dal «rischio calcolato» di Draghi che, sui vaccini, sta funzionando. Il meccanismo dei partiti ha subito la spallata di quell’elettorato d’opinione che dopo il governo Monti ha incoronato l’outsider di turno secondo la logica di ciò che è nuovo e contro il sistema vigente: il botto del Pd di Renzi al 41%, la volata di Grillo, lo scatto di Salvini. Un’offensiva senza riguardo all’asse destra-sinistra, con fughe in avanti e arretramenti, voti dati e distribuiti, poi tolti o ridimensionati. Consensi di oggi, domani chissà. Un monito anche per Giorgia Meloni.

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