La difficoltà
in politica
di essere
«uni e trini»

Il centrodestra vorrebbe essere «Uno», ma se si guarda bene risulta «Trino». Quando si presenta all’elezioni è «Uno»: così è stato alle politiche di tre anni fa, come ora alle amministrative di ottobre. In entrambi i casi, tuttavia, l’unità è una forzatura. Nel 2018, per esempio, non è riuscito a esprimere un candidato premier unitario e, aperta la legislatura, si è addirittura frantumato.
Oggi presenta, sì, candidature a sindaco unitarie in tutti i capoluoghi, ma ha dovuto ripiegare su nomi non di partito, piuttosto scialbi; segno che la scelta dei candidati da presentare è stata quanto mai laboriosa.

In altri tempi si giustificava la scarsa coesione di un’alleanza come una trovata tattica: marciare divisi per colpire uniti. Almeno sul piano elettorale, il gioco sembra funzionare anche per il centrodestra. Alle politiche del 2018 valeva il 35%, un anno dopo il 48%, la stessa percentuale di cui è ora avvalorato dai sondaggi. I numeri occultano, però, che quella crescita elettorale è figlia del sistema proporzionale, grazie al quale ciascun partito ha potuto giocare le proprie carte. Procedendo diviso vince nelle urne, ma presentandosi unito tradisce la sua interna debolezza. Alle elezioni del 2018 la destra aveva sbandierato la sua unità, subito saltata. Salvo col Conte II, in cui ha mantenuto l’unità restando all’opposizione, col Conte I e con Draghi ognuno dei tre è andato per la propria strada.

Il centrodestra si rivela poi puntualmente «Trino» anche quando deve prendere posizione su questioni importanti dell’agenda politica. Ultima divisione si è vista questa settimana in occasione della votazione sul green pass: Forza Italia si è dichiarata a favore, Fratelli d’Italia contraria, mentre la Lega si è defilata per non aprire varchi al suo interno.

La difficoltà del centrodestra a comportarsi da vera coalizione di governo è tradita anche dal criterio adottato per la scelta del futuro candidato premier. Lo sarà chi prevarrà nelle urne. Chi assicura che questo sia dotato di quel «quid», ossia di quel mix di credibilità e di autorevolezza che fanno di un semplice politico uno statista?

Lo si vede con Draghi: si dimostra premier di grande autorevolezza e non perché ha prevalso nelle urne su qualcun altro. Inoltre, procedendo in questo modo il centrodestra si condanna a chiedere la fiducia agli elettori a carte coperte, senza indicare cioè chi governerà in caso di vittoria.

Anche alle amministrative il centrodestra si presenta unito, ma di nuovo accusa una grande fatica a superare le sue divisioni. Costretto dal maggioritario a riconoscersi in un candidato, ha faticato prima a inventarsi – come s’è detto – un candidato sindaco. Arranca ora in campagna elettorale. I sondaggi sono impietosi. Solo a Torino e a Trieste risulta competitivo. Lo stesso Salvini si accontenterebbe di portare a casa i sindaci di queste due città.

È il colmo per una coalizione che si vanta di essere maggioritaria nel Paese e che è per di più favorita dai numeri in crescita e dal competere con un avversario decisamente diviso in tante anime politiche. Pd e M5s non sono riusciti infatti a esprimere un candidato unitario in nessuna delle grandi città, salvo a Napoli. La verità è che essere «Uni e Trini» è un atto di fede e in politica non c’è fede che tenga.

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