La Magistratura
e l’abuso di potere

I tre poteri descritti - ancor prima della rivoluzione francese - da Montesquieu (legislativo, esecutivo, giudiziario) costituiscono tuttora l’ossatura della «democrazia dei moderni». La tripartizione mantiene intatta, a secoli di distanza, la sua validità, sia formale sia sostanziale. La legittimazione dei governanti, la legalità come presidio dei diritti e dei doveri, la giustizia come baluardo contro i soprusi e l’illegalità convivono da sempre in un equilibrio delicato e sono perennemente a rischio di instabilità. Allorché tale equilibrio si incrina possono vacillare i principi stessi della democrazia. Ne è conferma l’articolo di Andrea Valesini «Se curare le ferite a 84 anni è un reato» (pubblicato su queste pagine lo scorso 14 marzo). I fatti narrati sono quasi agghiaccianti. A Trieste una coppia di anziani, Gian Andrea Franchi e Lorena Fornasir, noti in città come i «samaritani», dedicano le loro sere a curare i piedi degli immigrati che si trovano nei pressi della stazione ferroviaria.

La loro attività umanitaria - agli occhi della Procura della Repubblica - viene intesa come favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Accusa, nel caso specifico, piuttosto fantasiosa. Ma non basta: l’anziano insegnante in pensione, detto il «nonno dei profughi», viene chiamato - dal magistrato inquirente - a dimostrare che la sua attività è realmente filantropica e non fatta scopo di lucro. E qui al danno si aggiunge la beffa: l’onere della prova si inverte. Anche senza aver letto le carte, la nuda cronaca fa presumere che tutto si risolverà in una bolla di sapone. È, quindi, auspicabile che un magistrato meno malaccorto, nel corso dell’iter giudiziario, riporti la vicenda nei suoi giusti limiti. Il (molto) presunto «reo» verrà scagionato forse già in fase istruttoria, ma intanto la sua vita avrà subito un trauma, la sua onestà messa in dubbio, la sua dedizione al prossimo scambiata per malaffare.

Questi i danni ai quali può condurre il malaccorto uso dell’azione penale nelle mani di alcuni procuratori o sostituti procuratori della Repubblica. A volte, infatti, l’abuso produce tragedie rovinose. Si pensi all’incredibile «caso Tortora» o a quello - meno noto ma non meno terribile - di Roberto Racinaro, stimato professore universitario, incarcerato mentre era rettore dell’Università Federico II di Napoli per reati che non aveva commesso e dai quali fu scagionato soltanto 16 anni dopo.

Il fatto sconcertante accaduto a Trieste non può non mettere in allarme chiunque abbia a cuore un principio basilare delle democrazie: un imputato è innocente finché non arrivi una sentenza definitiva di colpevolezza. L’autonomia della magistratura non rende i suoi componenti estranei al rispetto alle regole della democrazia, se non altro perché ad essi è affidato dalla Costituzione e dalle leggi il compito di amministrare la giustizia. Nella sua parte e funzione inquirente la magistratura deve procedere con decisione ma, nel contempo, con i piedi di piombo, in particolare nell’esercizio di prerogative di limitazione dei diritti e della libertà dei cittadini. Ogni abuso in questo senso costituisce un colpo grave ai fondamenti del patto democratico. Lo slittamento verso modalità non sempre calibrate di uso dell’azione penale in fase istruttoria ha, nella storia del nostro Paese, una data ben precisa: il 1992. Dalle indagini di «Mani pulite» della Procura di Milano prese forma il mito del magistrato «salvatore della Patria». Da allora si sono ripetuti casi, nemmeno troppo sporadici, di protagonismo giudiziario. Crinale estremamente pericoloso, poiché amministrare la giustizia in «nome del popolo italiano» non dovrebbe mai sconfinare nella ricerca del consenso e del plauso della gente. La giustizia è cosa troppo seria e importante per divenire strumento di popolarità. Se ciò accade i rischi sono grossi.

© RIPRODUZIONE RISERVATA