La natalità è prioritaria: il caso cinese è di monito

ATTUALITÀ. «La sfida più importante che chiama in causa il Governo nella sua interezza è quella della natalità – ha detto il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, intervenendo al Meeting di Rimini – più importante dell’approvvigionamento energetico, delle riforme istituzionali, della regolamentazione delle migrazioni, perché un corpo sociale che rinuncia a mettere al mondo bambini è un corpo sociale che mostra di non avere speranza nel futuro».

Nelle stesse ore, da una parte il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha detto che le risorse a disposizione dell’esecutivo sono limitate, dunque nella Legge di bilancio occorrerà selezionare alcune priorità, e che comunque nessuna riforma previdenziale sarà sostenibile con una natalità così bassa come quella attuale, dall’altra parte il viceministro dell’Economia Maurizio Leo ha indicato tra le priorità della prossima manovra proprio l’aiuto economico alle famiglie numerose.

L’esecutivo mostra finalmente una notevole unità di intenti rispetto a una sfida, quella del calo delle nascite, che nel nostro Paese sarebbe riduttivo derubricare a «emergenza», visto che il «malessere demografico» (per citare lo studioso Antonio Golini) è ormai profondo e duraturo. Fin dalle prossime settimane sarà doveroso vigilare sul fatto che a queste parole seguano i fatti, mentre da subito – e al di là delle opinioni politiche di ciascuno - sarebbe miope minimizzare l’allarme lanciato da diversi esponenti dell’esecutivo Meloni. Per chi avesse dubbi sulla centralità della variabile demografica nel determinare lo sviluppo complessivo di un Paese, quanto sta accadendo in Cina può costituire un utilissimo caso di studio.

Da giorni gli investitori scrutano la seconda potenza economica globale. Il timore è che una grave crisi immobiliare possa mandare gambe all’aria anche il settore finanziario locale, scatenando a sua volta una sorta di «momento Lehman Brothers» globale. Per ora è complicato fare previsioni, anche se è plausibile che il rallentamento in corso dell’economia cinese potrà riverberarsi a livello planetario attraverso produzione manifatturiera e scambi commerciali più fiacchi del previsto. Così sempre più analisti evocano «il tramonto del boom cinese degli ultimi 40 anni». Secondo il Wall Street Journal, addirittura, «il modello che ha condotto il Paese dalla povertà allo status di grande potenza si è rotto». Certo, lo stesso quotidiano finanziario americano ricorda la recente parabola del settore delle auto elettriche o delle energie rinnovabili made in China per mettere in guardia da un eccesso di catastrofismo. Tuttavia, il Fondo monetario internazionale prevede per i prossimi anni un tasso di crescita del Pil cinese pari al 4%, meno della metà della media degli ultimi quattro decenni. E dietro analisi simili di medio-lungo periodo c’è sempre, guarda caso, la nuova debolezza demografica cinese. Secondo Gideon Rachman, editorialista del Financial Times, «la fase di decollo» della crescita cinese, come successo negli scorsi decenni anche in Giappone e Corea del Sud, «è stata guidata da una rapida industrializzazione trainata dall’export e da una forza lavoro a basso costo. Il rallentamento attuale è strettamente legato all’invecchiamento e al restringimento della popolazione». La spietata politica del «figlio unico», adottata dal Partito Comunista Cinese nel 1980 e abbandonata soltanto nel 2016, ha accelerato l’invecchiamento della società. Se la popolazione giapponese ha iniziato a diminuire nel 2011 e quella sudcoreana nel 2020, «lo scorso anno è toccato alla Cina registrare il suo primo declino della popolazione negli ultimi 60 anni. E in modo preoccupante per le autorità cinesi, questo calo della popolazione è cominciato quando la ricchezza media è a un livello inferiore rispetto ai vicini orientali». Per questo motivo Pechino «potrebbe accorgersi che la sua transizione verso una società più vecchia e a minor crescita sarà decisamente più difficile e turbolenta».

Forza lavoro che si assottiglia, produttività che si riduce, innovazione che s’indebolisce e welfare pubblico che diventa meno sostenibile: se la crisi demografica frena la crescita di un colosso da un miliardo e 425 milioni di abitanti, con un Pil da 17.963 miliardi di dollari (dati della Banca Mondiale), come si può pensare che possa lasciare indenne un’Italia con 58 milioni di abitanti e un Pil da 2.010 miliardi di dollari?

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