La politica da sola non spiega più tutto

Per quanto il successo di Giorgia Meloni rappresenti una novità assoluta nella storia repubblicana, pure la leader di FdI beneficia di una regola non scritta e praticata dal 2013: gli elettori premiano il carattere dalle idee nette e radicali, il volto nuovo, o ritenuto tale, ma solo (finora) per un giro. Di norma non si concede il bis: vince chi non ha governato prima.

Nessun osservatore, però, è riuscito a chiarire in profondità le ragioni di un’affermazione di queste dimensioni che non si spiega solo con la rendita di posizione di chi è sempre stato all’opposizione, considerando anche il retroterra storico da cui proviene il partito. L’inizio dell’attraversata nel deserto di quello che era il «polo degli esclusi» coincide con la mutazione della Lega salviniana che, nel 2013-2014, sdogana, ancor prima della Brexit e di Trump, la nuova destra alla Le Pen: Meloni - fra conservatorismo, temi identitari e, da ultimo, un draghismo soft - ha abilmente sfruttato lo spazio che Salvini, con un classico effetto indesiderato, le ha aperto e favorito, sino a violare quel Nord che dagli anni ’90 era la cassaforte del forzaleghismo. La sconfitta della Lega di rito salviniano era quindi annunciata al pari di quella, per motivi differenti, del Pd di Letta. Una leadership consumata, quella di Salvini, che non ha imparato dai propri limiti, attardandosi sulle vecchie parole d’ordine. Non s’è reso conto del mutamento di fase indotto da Covid e guerra, che hanno cambiato le priorità e i bisogni della gente. Il movimento che fu di Bossi mantiene una sua disciplina interna, dimostrata sin qui dalla dialettica-confronto rimasto sotto traccia con l’ala governista e i governatori, in particolare con Zaia e Fedriga. Non c’è mai stata una sfida aperta e peraltro oggi Salvini può contare su un gruppo parlamentare tutto suo.

Solo recentemente al raduno di Pontida i distinguo sono diventati pubblici. Ieri Salvini, ritrovatosi battuto e ridimensionato dal fuoco amico, ha avuto una reazione insufficiente, come se nulla fosse successo: un graffio e via. Mentre i vari Giorgetti e Fedriga sono rimasti silenziosi, l’unico attacco è stato sferrato da Zaia, che se lo può permettere perché gode di un consenso personale di gran lunga superiore a quello del partito. Dietro lo smottamento che preannuncia la stagione dell’oblio ci sarà la resa dei conti, di cui siamo solo alle premesse. La domanda è: cosa vuole essere la Lega, ora che si ritrova in un ruolo sostanzialmente gregario di Meloni e stretta nei confini dello zoccolo duro dei fedelissimi? C’è sul tavolo un progetto politico alternativo e in quale misura può essere praticabile un ritorno al nordismo delle origini, e quindi all’autonomia e dintorni, in un mondo che non è più la Padania di Bossi, nel frattempo traslocato armi e bagagli, nella componente del voto d’opinione, in FdI? Sul fronte opposto Letta, in modo dignitoso, paga per tutti, cioè per le responsabilità di un gruppo dirigente che perpetua e tutela un sistema correntizio, e paga per i propri errori. Resta come traghettatore fino al congresso di marzo, di fatto già iniziato, preparando l’uscita di scena. Il partito meno leaderista, fattosi partito-establishment fra onori e oneri della governabilità, ha sempre avuto un rapporto complicato e soprattutto diffidente con i propri numeri uno, raggiungendo il non invidiabile record di 8 segretari in 14 anni di vita. Senza post grillini e terzo polo (in realtà quarto polo), quella di Letta era una missione impossibile per la legge ferrea dei Collegi uninominali: il maggioritario richiede un progetto comune e condiviso, cosa che il centrodestra sa fare perché marcia diviso ma colpisce unito. Non ha giovato a Letta la radicalizzazione sull’«allarme democratico», un tema che non prende la media dell’elettorato. Non ha dato l’idea di essere titolare di un progetto e di una leadership riconoscibili. C’è poi un dato politico sul quale riflettere e che riguarda anche Calenda, che ha sottratto voti al Pd e che non è riuscito a superare Forza Italia: l’agenda Draghi non ha avuto alcun ristoro, nessun bonus, sui due partiti che più l’hanno sostenuta. Gli elettori in sostanza hanno detto di non essere interessati a un draghismo senza Draghi, o comunque interpretato da Letta e Calenda. Anche nel Pd si trascina la questione di sempre: quale cultura politica esprimere, quali prospettive per una forza intermedia di confine. Senza inseguire la scorciatoia che tutto si risolva nel cambio della guardia e non smontando invece il modello di potere delle oligarchie interne.

La spettacolare rimonta di Conte, che ha rottamato il grillismo e che s’è costruito un partito su misura, è la sconfitta del Pd. Spregiudicatezza demagogica certo, utilizzo a piene mani del Reddito di cittadinanza, un po’ di pauperismo e una venatura romantica da vecchio proletariato, ma non solo questo: c’è un cambio d’identità neolaburista. Il contismo, inteso come rifondazione del grillismo della prima ora, pesca nei vecchi serbatoi del Pci e della Cgil, dove non arriva neppure la sinistra-sinistra e comunque ha dimostrato una capacità d’ascolto delle periferie sociali che è mancata ai progressisti. Attenzione anche a fare del giurista con la pochette la caricatura dell’improbabile avvocato del pueblo. Se mettiamo insieme le discontinuità prodotte dai due estremi, a destra e a sinistra, osserviamo sotto la superficie della società l’azione di sentimenti inafferrabili e di lunga durata che la politica, da sola, non riesce più a spiegare.

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