La realtà costruita
non regge a quella vera

L’impressione è che i sovranisti comincino a giocare in difesa e un po’ meno baldanzosi, pur nel bellissimo 2019 (come da profezia di Conte), l’anno della fine della povertà (Di Maio). Niente di clamoroso, solo qualche scricchiolio, ma nell’aria si avverte che la loro potrebbe non essere una marcia trionfale a prescindere. Lo stato di grazia continua, specie per Salvini, tanto più che sulla testa del Pd è piovuta la tegola degli arresti in Umbria. La forza dei populisti sta anche nelle difficoltà e nella debolezza di un’alternativa praticabile.

Il Pd di Zingaretti ha iniziato la traversata nel deserto cercando di tenere insieme liberaldemocratici e vecchia sinistra, Berlusconi accompagna la mezza opposizione di un partito dalle posizioni incompatibili, come testimoniato dalla fronda di Toti. Tuttavia, pure i nuovi detentori del potere cominciano a fare i conti con il principio di realtà che non dispensa fortune gratis. Sovranisti di destra e di sinistra devono vedersela con un rebus irrisolvibile: oltre al rifiuto di questa Ue, non riescono a confezionare un programma comune per via delle pregiudiziali nazionali. Nell’ordine: ripartizione delle quote dei richiedenti asilo, rigore finanziario, relazioni con Putin. Lo si è visto bene con il trittico populista riunitosi a Milano attorno a Salvini: tedeschi, finlandesi e danesi. Non un granché. La Le Pen, che pure è della partita, non c’era, l’ungherese Orban, per il momento sospeso dal Partito popolare europeo, non s’è rivisto.

Lo stesso slogan dell’incontro, «Verso l’Europa del Buonsenso!», sembrava fatto apposta per rassicurare e non per allertare. La Lega, però, ha una casa in Europa, mentre Di Maio, che pure sta con l’estrema destra tedesca, non ne ha una nuova. I grillini, all’insegna dell’indietro tutta, sono itineranti, pellegrini in territori inesplorati dopo aver tentato con i liberali e con i gilet gialli francesi. Il capo dei Cinquestelle le sta provando tutte smarcandosi a sinistra nella competizione con Salvini: l’ala governista del movimento, sui grandi temi dell’Ue, si fa di volta in volta concava e convessa, mutando acrobaticamente posizione e colore a seconda dell’opportunità del momento. I due gemelli diversi del populismo litigano e non litigano, ma hanno in sorte prospettive differenti. Il leghista è in campo per riaffermarsi numero uno, è in una condizione extra large e quindi, anche non gli andasse di lusso, potrà sempre ribaltare la frittata con un tweet: bene o male, può prosperare in regime di pacchia. Il grillino, dopo aver scommesso sull’emorragia inarrestabile del Pd e sul big bang dei dem, si lascia alle spalle il proprio momento magico: lotta per evitare il tracollo lungo la linea del Piave.

Anche il recente Def (Documento di economia e finanza) ha mostrato i limiti del governo in un’Italia, la cui crescita è ferma e con un Nord, nei panni del compagno di strada tradito, che non sa più a chi rivolgersi. Ma anche qui la realtà s’è incaricata di ricordare che spese, tasse e debito compongono un triangolo insuperabile: non si può risolvere uno dei lati senza pagare un prezzo sugli altri due. Reddito di cittadinanza e Quota 100 hanno consumato i margini di manovra finanziari, la flat tax resta un annuncio. Da qui al voto del 26 maggio non succederà niente, si continua a ripetere, ma il quadro italiano, già di per sé friabile e stressato, è ora investito dall’escalation libica, che per noi è una questione nazionale: flussi migratori, economia (Eni), relazioni europee (Macron) e internazionali (Trump e Putin), terrorismo. La sponda Sud del Mediterraneo era parsa un po’ dismessa dopo la conferenza di Palermo del novembre scorso, quando Conte, lasciandosi prendere la mano, si era spinto a dire che c’era «una prospettiva di stabilizzazione». In agenda, invece, la priorità è stata assegnata alle emergenze profughi farlocche a scapito delle emergenze vere.

Difficile dar torto a Minniti quando sostiene che l’Italia dalla vista corta ha inviato un messaggio sbagliato, quello cioè di non essere interessata a parlare con il Nord Africa, ma soltanto a trasformare l’immigrazione in argomento di conflitto con l’Europa. Una guerra civile prolungata, peraltro non sorprendente, rischia di lasciar scoperto il controllo delle coste libiche, moltiplicando le partenze dei barconi verso l’Italia in vista anche della bella stagione. Tramontato l’alibi dei porti libici sicuri, i nuovi flussi si trasformerebbero nel fallimento della strategia del Viminale fondata sull’azzeramento degli sbarchi. Verrebbe colpita al cuore la ragion d’essere del salvinismo. Si capisce così l’attivismo tuttofare del ministro dell’Interno che ha irritato il premier, costretto a ridefinire i compiti della cabina di regia del governo per monitorare la situazione in Libia e perché possa parlare con una voce sola nella sua azione politico-diplomatica. La realtà vera suona come uno schiaffo alla realtà costruita: un motivo in più per correggersi finché si è in tempo.

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