La Sardegna alle urne, i possibili contraccolpi

IL VOTO. Non c’è appuntamento elettorale, anche di dimensioni esigue, che non susciti nei partiti delle fibrillazioni. Non ci sarà dunque da sorprenderci delle polemiche insorte alla vigilia del voto di quest’oggi. Ci siamo abituati.

Ben diverso è, invece, a ben guardare lo scenario che prepara l’infilata di appuntamenti con le urne che inizia con il rinnovo dell’assemblea regionale della Sardegna, proseguirà il 10 marzo con quella dell’Abruzzi e con un cospicuo numero di amministrazioni comunali, per finire l’anno prossimo con altre regioni. Una serie di elezioni, che sarà inframezzata dal voto europeo del prossimo giugno, il voto più politico di tutti. C’è da aspettarsi dunque ben più che i soliti sussulti di routine. La ragione è presto detta. Sono finiti i tempi in cui ci si attendeva dalle urne variazioni minime, dell’1-2%. Da ormai un decennio sono all’ordine del giorno avanzamenti, o crolli, di partiti dell’ordine anche del 20%. Ad esporre le forze politiche a tali sconquassi contribuiscono vari fattori. Primo: la fine della fidelizzazione degli elettori ad una casa-madre partitica, fidelizzazione che era prima cementata dall’adesione ad un’ideologia. A seguire: il peso crescente che rivestono i leaders o gli aspiranti tali, per cui basta un cambio del loro posizionamento politico per creare vasti sommovimenti all’interno dell’opinione pubblica.

A questi fattori per così dire strutturali se n’è aggiunto ultimamente uno contingente: lo stato di alta tensione interno dei due poli. Sia nel centrodestra che nel centrosinistra è in corso una ridefinizione dei ruoli di ciascun partito. Sono queste le ragioni che rendono la serie di tornate elettorali in calendario gravide di possibili rovinose conseguenze. Già il voto in Sardegna può determinare pesanti contraccolpi. La sconfitta del candidato imposto dalla Meloni o viceversa la mancata rivincita inseguita dalla Schlein nell’isola non mancherebbero di incoraggiare vaste offensive all’interno delle rispettive coalizioni contro le proprie leader. Non di meno, potrebbe avere un peso decisivo il voto europeo di giugno. Un eventuale passo falso di Salvini o della Schlein non sarebbe senza serie conseguenze.

Il passaggio politico più dedicato resta comunque il prossimo appuntamento elettorale nelle sette regioni i cui governatori sono arrivati a fine corsa: tre sono della Lega (Attilio Fontana presidente della Lombardia, Massimiliano Fedriga del Friuli Venezia Giulia, Luca Zaia del Veneto), tre del Pd (Stefano Bonaccini dell’Emilia-Romagna, Vincenzo De Luca della Campania, Michele Emiliano della Puglia) uno di Italia al centro, Giovanni Toti. La legge 165 del 2004 impedisce loro di ripresentarsi.

Il cambio della guida in una regione sarebbe un fatto fisiologico in una democrazia. Non quando, però, le figure di presidente in gioco hanno una caratura politica di primo livello. A destra il nervo scoperto è la riconferma di Zaia. Non solo l’attuale governatore del Veneto vanta un patrimonio elettorale personale di prima grandezza, ma è anche il naturale candidato alla successione a Salvini, nel caso in cui un cattivo risultato della Lega rimetta in discussione il vertice. Parallelamente, l’eventuale conferma parlamentare dell’impedimento posto ai tre governatori regionali del Pd giunti alla fine dei due mandati aprirebbe un aspro scontro a sinistra, con il pericolo di una resa dei conti tra l’ala riformista guidata da Bonaccini e sostenuta dal fronte degli amministratori locali, altrettanto interessati a rimanere alla guida dei loro enti, e la leader Schlein. Si apre insomma una stagione elettorale gravida di nubi minacciose quando non di bufere politiche.

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