La sconfitta di Meloni, la Lega al bivio

ITALIA. Giorgia Meloni, ammettendo la sconfitta in Sardegna, dice che «il centrodestra imparerà la lezione». Salvini aggiunge che la rivincita è dietro l’angolo: a marzo si voterà in Abruzzo. Tutti in coro ripetono: «Nessuna conseguenza sul governo».

E il governo certo non potrà essere sfiorato dalla crisi sarda. Ma lo sarà la coalizione. Sì, adesso i numeri dicono che le liste della maggioranza hanno preso nell’isola più voti di quelle di centrosinistra, sfiorando il 50%. Ma è pur vero che rispetto alle politiche del 2022 Fratelli d’Italia in Sardegna arretra di parecchio e lascia il primo posto al Partito democratico, ed è anche vero che la Lega si muove intorno al 4%, sotto Forza Italia, e si consola solo sommando i suoi voti a quelli dell’alleato Partito sardo d’azione dell’uscente Solinas. Quindi i partiti sono doloranti, i loro rapporti sono percorsi da sospetti e rancori e timori per il futuro. Serve «una fase nuova», «un secondo tempo»: in genere lo si dice quando si è in crisi.

Partiamo da Giorgia Meloni. Truzzu lo ha voluto lei, fortemente e senza accettare discussioni, scartando Solinas e imponendolo a Salvini che alla fine ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco. Truzzu ha perso, dunque ha perso Meloni: a Cagliari come a Roma dove, ricordate?, naufragò la (ancora una volta sua) disastrosa candidatura a sindaco dell’impresentabile Michetti. Nessuna dichiarazione di compattezza, di lealtà, di fair play da parte dei leader alleati; e nessuna generosa autoaccusa da parte di Truzzu possono cancellare questo dato politico. Dunque la lezione cui la Meloni pensa dovrebbe essere quella che deve imparare lei, come le suggeriscono gli stessi giornali di centrodestra: d’ora in poi gli altri non vorranno essere trattati come dei subordinati anche se, è vero, hanno tutti insieme la metà dei suoi voti. Ma comunque senza di loro la coalizione non c’è e nemmeno il governo. Dunque, c’è un metodo da cambiare. Ci riuscirà la presidente del Consiglio?

Quanto a Salvini, da una parte può recriminare (in privato) sul fatto che è stato bocciato il candidato che lui non voleva, anche se non c’è la controprova che Solinas avrebbe potuto far meglio. Dall’altra, guarda sconsolato il risultato elettorale della Lega in Sardegna e pensa alle altre regioni, e pure alle Europee dove ognuno corre da solo e si deve cercare i voti ad uno ad uno. Non può succedere che il Carroccio vada sotto Forza Italia come è successo nel test sardo. Se accade ancora, soprattutto il 9 giugno, Salvini sa che la sua leadership è fortemente a rischio. Deve quindi trattenere i suoi generali, a cominciare da Zaia e garantirgli il terzo mandato. Finora Meloni ha detto no, ma se si deve cambiare metodo, ecco un’ottima occasione per cominciare. In alternativa, Salvini è pronto a prendersi la sua libertà d’azione ben più di quanto abbia fatto finora.

Forza Italia, alla fine, è quella che ne esce meglio. La notizia della morte di quel partito, come nel caso di Mark Twain, «è fortemente esagerata»: gli azzurri di Tajani, ancorché orfani di Berlusconi, sono ancora in campo.

Altro fronte, il centrosinistra. Alessandra Todde (battuta polemica: «I sardi con la matita hanno risposto alle manganellate») sia pure per un soffio ha vinto, ed è presidente. Il «campo largo» si è fatto alla condizione di far correre uno dei Cinque Stelle, lei appunto. Conte è pronto a fare accordi col Pd solo se lo si accontenta: lo dice chiaro, e non rileva per lui che i democratici in Sardegna sono il primo partito con il doppio dei voti del M5S. Ma in questo momento tutti applaudono a si congratulano, anche Calenda si addolcisce, la Schlein si rafforza, la sua idea di coalizione in Sardegna sembra aver riaperto la strada della collaborazione (come ricorda Dario Franceschini). Ma le condizioni di Conte sono molto esose e non tutto il Pd è disposto a soddisfarle ogni volta. Soprattutto se l’ex avvocato del popolo si fosse messo in testa di essere lui il candidato premier del centrosinistra alle prossime politiche.

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