La svolta della Bce, indietro per avanzare

La Banca centrale europea ha adottato ieri due decisioni di grande importanza: l’aumento di mezzo punto dei tassi di interesse e la predisposizione del meccanismo di prevenzione della frammentazione dell’area euro, che sarà noto con la sigla Tpi. Definirle storiche è forse troppo, però segnano una svolta rilevante ciascuna nel suo ambito di efficacia.

L’aumento dei tassi di interesse di ieri giunge dopo 11 anni da quel luglio 2011 in cui l’allora presidente Trichet operò, forse improvvidamente, l’incremento del costo del denaro facendo deflagrare la crisi dell’euro, quella che culminò con lo spread Bund Btp a oltre 500 punti, la caduta del Governo Berlusconi e la chiamata a Palazzo Chigi di Mario Monti (curiosa ricorrenza). È seguito un lungo decennio di politica monetaria espansiva, il periodo da Mario Draghi a Christine Lagarde, con il tasso del denaro prestato alle banche a livello zero da marzo 2016. L’aumento di ieri è dettato dalla necessità di contrastare un’inflazione ormai galoppante (come si diceva negli anni ’80) che ha raggiunto l’8,6% nella media europea, con il picco del 22% in Estonia. L’Italia è allineata al valore medio con il suo 8,5%.

Questa manovra giunge in un momento poco opportuno, quando semmai sarebbe servito un stimolo all’economia per non cadere in quella recessione che si profila dietro l’angolo. C’è anche chi dubita della sua efficacia nel contrasto alla crescita dei prezzi, visto che questa deriva soprattutto dall’aumento del costo dell’energia e delle materie prime e non da un eccesso di domanda di consumi da raffreddare con la leva monetaria. In realtà, non c’è mai un momento in cui l’aumento dei tassi di interesse sia benefico per l’economia, ma se oggi ci troviamo nella necessità di attuare questa manovra è anche perché la fase di politica monetaria iperespansiva è durata troppo a lungo. Se avessimo avuto il coraggio di riportare i tassi a livelli normali negli anni scorsi, oggi potremmo evitare un’azione che va contro le esigenze di sostegno all’economia in un momento così critico. In altri termini, forse troppo colloquiali, abbiamo sparato tutte le cartucce troppo presto e oggi ci troviamo disarmati nel contrastare i timori di recessione.

La seconda importante decisione è l’adozione del meccanismo di trasmissione della politica monetaria, tecnicamente Tpi, che nella vulgata giornalistica è già diventato lo scudo antri spread. Le perduranti differenze che sussistono fra i 19 Paesi dell’area euro, in termini di politiche di bilancio, di integrazione dei mercati eccetera fanno sì che le azioni di politica monetaria che vanno bene per un Paese siano inadatte per un altro. Allora la Bce vuole avere maggiore flessibilità di intervento in caso di specifiche problematiche di questo o quel Paese, potendo arrivare a sostenere i suoi titoli di debito sul mercato secondario. In concreto significa che, al verificarsi di certe condizioni, come per esempio la crescita eccessiva dello spread, potrebbe acquistare i nostri Btp. E scongiurare così una crisi tipo quella del 2011. I dettagli non sono ancora noti, Lagarde vuole tenerli riservati per assicurarsi la maggiore discrezionalità, ma si sa che dovranno ricorrere alcuni presupposti di meritevolezza del Paese interessato: sul debito pubblico, sulle politiche macroeconomiche eccetera. Qualcuno lo paragona alla famosa Troyka che intervenne in Grecia ma si tratta di un meccanismo molto più leggero soprattutto in termini di richieste verso il Paese interessato, le cosiddette condizionalità.

Sembra quasi un ritorno a un decennio fa, ma a volte per andare avanti occorre tornare indietro.

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