La vergogna
di guerre e armi

La bolla della tensione della crisi ucraina cresce vorticosamente, tra diplomazia a tentoni e appelli alla calma che cadono nel vuoto. Ma una cosa è assolutamente ovvia. Si alzerà il fatturato di chi produce armamenti e la tragica eccitazione odierna è un grande assist a chi già fattura miliardi. Siamo «attaccati alle guerre», ha denunciato ieri Papa Francesco nell’ennesimo appello a scongiurare una pazzia che «ci fa vergognare tutti». La lezione di Benedetto XV sull’«inutile strage», evocata di nuovo da Bergoglio, non angoscia più nessuno: militarizzare ogni crisi conviene. Siamo «campioni nel fare la guerra», ha aggiunto il Papa. La corsa spietata a riempire gli arsenali lo dimostra. La de-escalation dovrebbe cominciare da qui. Invece, siamo al record globale e anche italiano. La nostra lista della spesa sfonda il muro dei 25 miliardi di euro, cifra mai raggiunta, stracciando il primato, già altissimo, dell’anno scorso.

Nei primi due mesi dell’anno una valanga di programmi di riarmo è stata inviata dal ministro della Difesa Lorenzo Guerini al Parlamento, che ha approvato all’unanimità 31 richieste di adeguamento dell’armamento con un balzo del 3,4 per cento sul 2021 e un picco di ben il 20 per cento negli ultimi tre anni. Tutto in fretta e tutto in silenzio. Nessun parlamentare nelle Commissioni Bilancio e Difesa della Camera ha alzato un dito e ha chiesto chiarimenti, nonostante gli appelli di Papa Francesco a ridurre la spesa militare globale o almeno a concordare una moratoria temporanea, un anno senza quote aggiuntive, per investire in vaccini e ridurre la fame nel mondo. Invece, niente.

E non vale consolarsi perché siamo in linea con il resto del mondo. La pandemia non ha fermato la spesa militare, anzi l’ha rafforzata. Secondo i dati del Sipri, l’autorevole centro di analisi sulla spesa militare mondiale con sede a Stoccolma, le cento aziende più grandi del mondo nel comparto militare industriale hanno totalizzato utili per 531 miliardi di dollari, cioè +17 per cento rispetto al 2015 e +1,3 per cento nel 2020, primo annus horribilis della pandemia, quando era lecito aspettarsi che gli investimenti calassero. In Italia nel conto vanno messi non solo i soldi della spesa «quotidiana», richiesti alle Commissioni difesa e bilancio, ma anche parti considerevoli dei cosiddetti «Fondi pluriennali di investimento», una massa di denaro sicuro, prevista da una legge del 2016, da spendere nell’arco di alcuni anni. Servono per investimenti ritenuti strategici da sottrarre alle decisione annuali e ballerine delle leggi di bilancio. Ebbene il 25 per cento dei Fondi pluriennali di investimento, previsti fino al 2034, va alla Difesa. Si tratta di 38 miliardi su 143, di cui 26 per l’acquisto di nuovi sistemi d’arma con il picco, già previsto, tra il 2027 e il 2028.

Insomma, siamo ben lontani da un’inversione di tendenza. Spendiamo per nuove fregate, per un nuovo caccia che si chiama «Tempest» di cui per la sola ricerca e sviluppo sono stati destinati 6 miliardi, mentre alcuni campi della ricerca in Italia soffrono per la mancanza di finanziamenti. Poi ci sono carri armati, 45 gommoni armati da sbarco per l’esercito (un milione e mezzo cadauno), 5 nuove batterie antimissile da dispiegare in Friuli a 50 milioni ciascuna e un avamposto di comando aereo per missioni all’estero nuovo di zecca per la cifra di 365 milioni di euro. Per la prima volta compriamo droni kamikaze, piccoli e leggeri, manovrabili con facilità da unità d’élite. Poi c’è l’intelligenza artificiale (190 milioni), robotica e supercalcoli della cyber-war (60 milioni di euro). La vetrina militare italiana non è mai stata così lucida.

Per cosa? È questa la domanda a cui nessuno vuole rispondere e che nemmeno il Parlamento si azzarda a proporre. Abbiamo bisogno di visibilità tecnologica perché stiamo puntando al vertice della missione Nato in Iraq? Ma non si tratta di una missione di peacekeeping «non combat»? Domande senza risposte. Come è rimasta lettera morta una proposta di costituire una Autorità di controllo sugli appalti militari per verificare che ogni spesa sia appropriata non solo per gli appetiti dei generali e dei manager dell’industria. Era il 2016. Oggi nessuno ne parla più.

© RIPRODUZIONE RISERVATA