La vittoria in Europa, ma ora
Conte affronta gli ostacoli italiani

A Bruxelles si parlava del futuro dell’Europa, ma nessuno ha mai perso di vista casa propria, soprattutto chi sapeva di esser sotto il tiro della propria opinione pubblica. L’assillo maggiore era comunque in carico all’olandese Rutte e al nostro Conte. Il primo aveva il fiato sul collo di un elettorato sensibile, come pochi, al tema dell’austerità, in specie quando si parla di quei «fannulloni degli italiani». Il secondo aveva presente che si trattava per lui di una vera e propria prova del fuoco: o tornava con la borsa piena di Eurobond o poteva scordarsi di mangiare il panettone a Natale a Palazzo Chigi. Tutto invece è andato per il meglio, almeno nel caso del nostro premier: un Ricovery bond più generoso del previsto e una maggioranza rinfrancata dalla possibilità di poter agitare il ricco trofeo di 209 miliardi (tra prestati e a fondo perduto) al cospetto di un Paese prostrato dalla più grave crisi degli ultimi settant’anni.

Vincere una battaglia non è detto, però, che sia vincere una guerra. Soprattutto quando questa si annuncia lunga, aspra e combattuta, se non proprio a mani nude, con un’armata non invincibile, uno stato maggiore a dir poco inesperto e non coeso. Risolto il nodo impellente, Conte s’è subito trovato a fare i conti con altri problemi non meno spinosi. Anzitutto il Mes, di cui il governo ha un disperato bisogno, ma che i 5 Stelle non vogliono nemmeno nominare. A seguire, la riforma elettorale, necessaria e urgente perché il referendum costituzionale che taglia di un terzo deputati e senatori imporrà, quanto meno, il ridisegno dei collegi elettorali. Poi il voto di settembre, dove la maggioranza si presenta in ben cinque regioni, su sette, in ordine sparso. Quando un candidato proposto dal Pd non è osteggiato dal M5S, c’ha pensato Italia Viva a contrapporgliene uno suo. E ancora: l’accresciuto prestigio di Conte, se scoraggia l’opposizione dallo scommettere su elezioni anticipate, mette in fibrillazione la maggioranza. Non sono pochi quelli tra i 5 Stelle (Di Maio per primo) che trovano sempre più ingombrante la figura del premier. Lo tengono perciò a bada, ma sotto traccia, per non finire essi stessi schiacciati dalle macerie di una legislatura interrotta. Il Pd, da parte sua, è stanco di fare il cireneo, condannato a portare sulle spalle la croce di un governo inconcludente, ben sapendo che il vero calvario comincerà a settembre, quando la crisi avrà messo sul lastrico migliaia di italiani e con la riapertura delle scuole potrà scoppiare un putiferio. Tutti sanno peraltro che i 209 miliardi sono di là da venire, oltre ad essere altro debito da finanziare. Il Recovery Fund non è in effetti un Elicopter money, una pioggia gratuita di denaro, bensì un debito solo posticipato, comunque da onorare, anche se in parte ripagato con tasse europee.

Si capisce a questo punto il perché di tutte queste smancerie che la maggioranza riserva a Berlusconi, fino a ieri il Cavaliere nero per la sinistra e lo psiconano per il M5S. Magari il capo di FI offrisse una mano alla maggioranza, possibilmente già in settimana quando verrà in votazione il terzo scostamento di bilancio (25 miliardi), che richiede una maggioranza qualificata, per nulla scontata. Nel qual caso, lo scompiglio si allargherebbe nel campo dell’opposizione, già lacerata oggi, anche se l’imminenza dell’importante turno elettorale consiglia tutti a destra di celare le divisioni. Nessuno comunque si nasconde che, dopo la decisione storica della Ue di garantire il debito di Paesi in difficoltà con propri bond, la scelta tra europeismo e euroscetticismo è diventato il nuovo discrimine della politica italiana, in soldoni tra Salvini-Meloni e Berlusconi.

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