L’acciaio e la salute il balletto sull’ex Ilva

Scongiurato il pericolo di essere spento per mano giudiziaria, il grande forno dell’ex Ilva continua però a sonnecchiare. L’Italia ha bisogno di acciaio, i prezzi sono molto remunerativi, ma non si produce neppure la latta per inscatolare i pomodori che stanno aspettando sotto il sole. La cassa integrazione corre, anche se la regola la prevede solo in caso di crisi, e il settore va invece benissimo. La politica dà il peggio di sé, in bilico tra la finzione demagogica e il realismo di chi è ben consapevole che bisogna ripartire. Stavolta il problema è che nessuno vuole approvare il bilancio precedente, ed è paralizzata la nuova gestione, con inerti due grandi manager, Bernabè e Cao, e il più grande esperto di acciaio del Paese, il professor Mapelli.

Un semestre di un ottimo 2021 se ne è già andato dopo che il sindaco di Taranto ha avuto la bella idea di disporre la chiusura, tanto la responsabilità vera se la sarebbe presa qualcun altro. Il solito Tar ha passato la palla al Consiglio di Stato, che con una sentenza di 50 pagine ha messo fine a questa esibizione del non fare. Fermare il forno (che una volta spento non si riaccende girando una manopola) era illegittimo. Lo sapevano tutti, compresi i proponenti.

Il rischio salute è ovviamente non negoziabile. Se c’è qualcuno che può sostenere inconfutabilmente che li c’è una macchina di morte, lo si stabilisca una volta per tutte e si chiuda subito tutto. Riconvertiremo (?) un intero sistema manifatturiero che ha bisogno di acciaio vicino, flessibile rispetto alla domanda, non importato da chissà dove.

C’è un problema ambientale (specie nel quartiere Tamburi, quello sì da chiudere), ma proprio negli ultimi anni qualcosa si é fatto con investimenti di quasi 2 miliardi. Ora si parla di una riconversione parallela, con forni elettrici mangiarottami (materiale scarso), ma proprio non sono il massimo ambientalmente ed energeticamente. Soprattutto si promette l’idrogeno, ma il giorno in cui arriverà dovrà pur trovare un sistema produttivo-distributivo funzionante, non il Luna Park proposto da Grillo.

Ci hanno provato in tanti: lo Stato, che ha forse fatto il peggio perdendo miliardi, i privati italiani più grandi, e i migliori stranieri: tedeschi, russi, algerini, indiani. Questi ultimi, i più grandi al mondo, forse volevano solo controllare un concorrente, ma avevano sottoscritto con Calenda un impegno serio. È arrivato Di Maio e gli ha offerto la scusa dello scudo penale per sottrarsi al contratto che lo prevedeva. Uno dei tanti guai di un grillismo che a Taranto ha fatto grandi promesse, premiate da un voto bulgaro. L’ex ministra del Sud pentastellata propone ancor oggi cozze anziché acciaio.

Taranto è in realtà la quintessenza della doppiezza politica. Lo vediamo tutte le volte (centrali, autostrade) che c’è una questione delicata da risolvere. I partiti vellicano le attese considerate più popolari, ma gli uomini di governo degli stessi partiti si barcamenano in direzione opposta. Lo si è visto plasticamente qualche giorno fa. Il segretario del Pd Letta, con accanto sindaco e governatore proponenti la chiusura del forno, è andato a Taranto a dire che lo Stato doveva «risarcire» i tarantini (da cosa? La non decisione o gravi colpe sanitarie e ambientali)? Peccato che i decreti firmati nel 2017 da Gentiloni/Calenda e nel 2013 da Orlando/Letta sono quelli tuttora vigenti. Se è una fabbrica di morte, lo è a Taranto come a Roma, dove in questi giorni si sta facendo di tutto per ripartire, e ci lavorano ministri come Orlando e Giorgetti, decisivi nei propri partiti.

Insomma, veniamone fuori. Possibilmente con il linguaggio della verità. Smettiamola di parlare di «se» e magari parliamo del «come», lasciando lavorare la nuova gestione, al largo da Tar ed esibizionisti.

Attenzione però che l’Europa ha già tolto dal Pnrr fondi per un’Ilva che vada a gas e non ci sono ancora concrete possibilità di usare l’idrogeno. Se dunque sentirete ripetere giaculatorie ambientaliste sulla fine dell’orrido carbone (oggi finalmente coperto nei depositi), sappiate che non sono finanziate dal Recovery. Ci penserà lo Stato. Che ha già versato 400 milioni e ne ha pronti altri 264.

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