L’atomica
iraniana
La carota
di Biden

Prove di dialogo in Medio Oriente tra lo scetticismo generale. La novità è che Joe Biden ha cambiato posizione rispetto a quella di Donald Trump. Dopo 20 mesi dall’abbandono dell’accordo internazionale sul programma atomico iraniano da parte degli Stati Uniti, ora Washington si è dichiarata disponibile a riaprire una qualche trattativa con Teheran. L’obiettivo è salvare quello che resta di quanto raggiunto nel luglio 2015, quando - dopo anni di negoziati infruttuosi - Usa, Gran Bretagna, Francia, Germania, Cina e Russia riuscirono a far firmare al Paese degli ayatollah un’intesa grazie alla quale si imponevano limiti alle attività nucleari e la visita degli ispettori dell’Aiea in cambio di un allentamento della sanzioni.

L’Iran ha sempre affermato che il suo programma ha scopi civili, ma i vicini - in primo luogo Israele - ne hanno sempre dubitato. La comunità internazionale e Gerusalemme in particolare non vogliono che Teheran si doti dell’arma atomica. Alle Nazioni Unite, nel 2010, furono approvate pesanti sanzioni anche grazie al voto di Russia e Cina. Proprio la posizione costruttiva del Cremlino di 6 anni fa ha facilitato l’accordo del 2015: l’Iran invia in Russia il materiale nucleare utilizzato, eliminando uno dei problemi maggiori.

Basandosi su calcoli degli ultraconservatori israeliani, Donald Trump si rese conto che, comunque, Teheran in pochi anni avrebbe potuto avere la bomba atomica. Così, nel maggio 2018, gli Usa uscirono dall’accordo internazionale, pretendendo di siglarne uno nuovo, in cui inserire anche il programma missilistico balistico e l’impegno formale ad uscire dai conflitti regionali. Gli ayatollah risposero negativamente. Risultato? L’introduzione di nuove sanzioni Usa, che hanno peggiorato la crisi economica nel Paese mediorientale.

Il presidente Biden è tornato alla carota dopo il bastone del predecessore. La ragione è semplice: l’accordo del 2015 è praticamente fallito e gli iraniani non rispettano più da mesi i limiti definiti alle attività nucleari. Il margine temporale per raggiungere la possibile bomba atomica si è assottigliato.

Vi sono, però, anche fini calcoli politici nella scelta del nuovo inquilino della Casa bianca: a giugno sono previste le presidenziali iraniane. Il moderato Rouhani, favorevole all’intesa, non può più candidarsi. I «duri» del regime, invece, vorrebbero che l’accordo saltasse del tutto per meglio giustificare davanti alla popolazione l’attuale grave crisi economica provocata dalle sanzioni. Le proteste negli ultimi tempi sono aumentate contemporaneamente all’elevarsi del tasso di disoccupazione.

L’Amministrazione Biden, in sostanza, spera di sfruttare a proprio favore la finestra temporale che si è spalancata. I repubblicani Usa sono al contrario dubbiosi: temono che concedere altro tempo agli ayatollah o allentare la presa sia un errore. Israele, preoccupato, osserva gli eventi, mentre i suoi mass media scrivono che il premier Netanyahu, assai vicino a Trump, sia stato uno degli ultimi leader mondiali ad essere chiamato da Biden dopo l’insediamento alla Casa Bianca.

Come per il prolungamento del trattato Start-3 sulla riduzione degli arsenali nucleari, definito nell’arco di pochi giorni qualche settimana fa da Mosca e Washington, anche in questa partita il rapporto tra Russia e Stati Uniti è centrale per sperare di raggiungere un qualche risultato positivo. Nel momento in cui si passa dal litigare sui valori fondamentali al trattare le questioni geostrategiche, è necessario evidenziarlo, il mondo scopre tutta la sua fragilità.

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