L’aumento dei salari tra rinnovi contrattuali e taglio del cuneo fiscale

L’inflazione che sale (5 punti erosi già quest’anno, secondo Istat) viene fronteggiata da una dolorosa e dimenticata manovra sul costo del denaro. Ai percettori di reddito fisso era stato detto di non preoccuparsi perché l’inflazione sarebbe durata poco, ma l’uscita di Christine Lagarde ha tolto ogni speranza. Bisogna attrezzarsi, come sanno bene i francesi che hanno fatto due campagne elettorali in un mese tutte all’insegna del costo della vita che cresce. E allora il tema salari è davvero centrale e non può risolverlo la direttiva (non obbligatoria) sul salario minimo che riguarda soprattutto chi in Europa non ha un sistema contrattuale erga omnes come il nostro e punta su Paesi che prevedono paghe da 2-3 euro (lordi!) all’ora.

I nostri minimi contrattuali superano i 9 euro all’ora (la Germania ha deciso pochi giorni fa 12 euro) e restano fuori i senza contratto e la fascia nera dello sfruttamento, che in parte purtroppo resterà. Ma il nostro problema non sono i salari minimi, ma quelli medi, addirittura diminuiti: scesi del 2,9% dal 1992, mentre in Francia sono saliti del 31%, in Germania del 33,7%, in Spagna del 6,2%. La «liberista» Irlanda segna un +85,5%. Per rimediare c’è il semplicismo, alla Landini (tasse) o del ministro Orlando (alzare le paghe e tanti saluti), ma la materia è più seria: i salari sono collocati al termine, non all’inizio di un lungo processo. La media è frutto di un rapporto che in basso è concorrenziale con il reddito di cittadinanza (il turismo non trova 300mila stagionali, l’agricoltura 100mila) e in alto vale 2 - 3 mensilità in meno che nei Paesi nostri simili.

La questione è da risolvere in chiave totalmente politica, perché coinvolge Fisco, pensioni, giovani, scuola, competitività, fuga dei cervelli, demografia. Richiede un incontro a 3, col Governo a capotavola perché si deve muovere la leva fiscale. Occorre però star attenti a non fare passi indietro, verso utopie del tipo salario variabile indipendente. Sono passati 50 anni dai tempi del crudo inseguimento prezzi-salari, evocata recentemente con preoccupazione dal Governatore di Bankitalia. Visco, in verità, è sembrato sperare ancora in una inflazione sotto controllo, indicando una preferenza per la discutibile politica dei bonus tampone, adottata dalle imprese in Germania, erogando consistenti una tantum per aspettare la caduta inflattiva. Ma da noi, l’inflazione si è già mangiata i miliardi degli interventi di emergenza a spese del debito. La via migliore resta quella dei rinnovi contrattuali, chiesti dai sindacati, e/o dal taglio netto del cuneo fiscale (45,6% del costo del lavoro, contro media Ocse del 34%) che chiedono gli industriali. Si parla di una prima tranche. In un’economia di mercato, ci sarebbero però in questa materia soprattutto due indicatori da valorizzare: l’andamento del Pil e quello della produttività. Ma sono esiti che dipendono da un’infinità di andamenti interni, e oggi ancor più internazionali: efficienza e dimensioni del capitale impiegato, qualità dei servizi pubblici, costo del denaro, funzionamento del mercato, dimensioni d’impresa, concorrenza, innovazione, stabilità delle regole. Sono proprio i problemi su cui da decenni è impantanata l’economia italiana: se dipende da questo un salario più equo e più attrattivo, campa cavallo.

Ma c’è un fatto nuovo. Questi temi e tanti altri dipendono dal grande libro del Pnrr e dagli investimenti correlati. È la nostra ultima spiaggia. Quando è arrivato l’aiuto europeo, abbiamo esultato, poi è cominciato il balletto dei distinguo, e i falsi casi dei balneari e del catasto non sono affatto risolti. Dunque, anche un problema sistemico come quello dei salari dipende da quella non piccola cosa che è la serietà della classe politica. E dalla disponibilità degli elettori, beninteso, a distinguere tra le patacche procura voti e la capacità di pensare davvero al futuro del Paese.

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