Le battaglie di potere
in cui serve lungimiranza

Le battaglie per il controllo dei grandi poteri non sono in corso solo in campo pubblico (Quirinale). In questi stessi giorni c’è, in campo privato, un’altra competizione molto aspra, quella attorno alle Assicurazioni Generali, crocevia della finanza italiana. Le mettiamo in parallelo perché vi sono interessanti analogie. In entrambi i casi si parla del destino di uomini (chi andrà al Quirinale, chi comanderà alle Generali?), ma dietro c’è un sistema, con ricadute sempre di interesse generale. Un altro dato comune è l’equilibrio delle forze. Ci sono maggioranze relative, ma non assolute, e l’esito sembra dipendere soprattutto dalle capacità manovriere di chi cambia campo.Sia la politica che il capitalismo (salvo un po’ Mediobanca) sono profondamente cambiati.

Nella finanza, non ci sono più protagonisti simbolici. Può sembrare una battuta, ma l’unico dato permanente è il ruolo da protagonista sempre prorogato, in entrambi i campi, di Silvio Berlusconi. Ancora un dato comune: sia nella scelta del Capo dello Stato che del Leone di Trieste, i veri protagonisti sono lontani: i cittadini elettori, che non sono chiamati in causa direttamente, e le migliaia di azionisti che hanno affidato i risparmi alla cassaforte del primo gruppo finanziario nazionale. Detentore di un pezzo importante del debito dello Stato: 60 miliardi, un quarto di tutto il Pnrr.

La battaglia delle Generali ha qualche settimana in più per annunciare nell’Assemblea di aprile l’esito finale. Ma i giochi sono in pieno corso e, rispetto a quelli del Quirinale, possono essere letti a scrutinio palese.

La gestione uscente vanta una piccola maggioranza relativa, con qualcosa più del 17%, ottenuta con la presa in affitto di una percentuale di azioni da parte di Mediobanca (strano, ma si può fare). Pretende, su questa base, di designare il nuovo cda, simile a quello vecchio, con il numero 1, Philippe Donnet, un francese scelto anche perché gli interessi in gioco scavalcano le Alpi. Sull’altro fronte ci sono i combattenti all’assalto: la fondazione Crt, il più grande contribuente italiano, Luciano Del Vecchio, e il costruttore Francesco Caltagirone, che nei giorni scorso si è dimesso da vicepresidente con una lettera polemica, ma soprattutto per avere mani libere e potersi comprare almeno il 2% (fa 2 miliardi) per stare sotto la soglia antitrust e realizzare l’operazione sorpasso sui rivali. Mossa imitata subito dall’uomo di Del Vecchio in cda. Piccolo particolare: c’è anche un ago della bilancia, ed è Alessandro Benetton, nuovo leader della famiglia veneta, che ha preso le distanze dalla disgraziata vicenda Morandi e oggi vuol ribadire quel nome tra i grandi della finanza. Sta sia in Generali che in Mediobanca, ma ha le mani libere perché ha svincolato il suo 2,1% di Piazzetta Cuccia e potrebbe fare la differenza tra i pretendenti. Può essere insomma quello che per il Quirinale aspira ad essere il Gruppo misto in Parlamento.

La battaglia è solo agli inizi. Potrebbe accadere di tutto, e non parliamo della battaglia ulteriore per la scelta dei manager e dei consiglieri (tra questi, anche un bergamasco, Lorenzo Pellicioli, che da anni rappresenta il gruppo De Agostini, che cedette un’assicurazione forte come la Toro). Il paradosso è che a far da spettatore c’è il restante azionariato maggioritario, perché i blocchi e l’ago centrale arrivano più o meno al 37%, una minoranza per giunta spaccata. Decideranno alla fine sulle nomine i fondi, che pensano, almeno si spera, non ai giochi di palazzo ma ai nudi interessi dei risparmiatori che rappresentano.

Vedremo come andrà a finire. I dadi sono in mano a pochi e non è detto che vincano i migliori. Ai cittadini che guardano a un Quirinale che tuteli gli interessi comuni, così come agli azionisti del Leone preoccupati dei loro risparmi, resta solo da sperare che in queste battaglie vi sia almeno lungimiranza.

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