Le Europee, prova rischiosa per Schlein

IL COMMENTO. Le imminenti elezioni europee rappresentano una sorta di cerchio di fuoco per Schlein. Si capisce che sia esitante di fronte a una simile prova. Se l’affronta, sa i rischi che corre: una maggiore distanza elettorale dalla sua rivale Meloni.

Se invece rifiuta la sfida, il suo gesto non resta comunque senza danni: darebbe l’impressione di sottrarsi al confronto, con l’aggravante di ledere la sua aspirazione a conquistare la guida dell’opposizione. Il paradosso è che l’esitazione ha già procurato un danno alla sua immagine. L’esitazione non è una virtù da leader. Lo è ancor meno, se si conferma un tratto congenito della sua personalità politica. Purtroppo per lei, è proprio a questo limite caratteriale che viene da pensare vedendo il comportamento rinunciatario che ha seguito finora.

Peccato, perché la sua travolgente irruzione sulla scena politica aveva fatto pensare a tutt’altro. Veni, vidi, vici (venni, vidi, vinsi) avrebbe potuto pronunciare dopo esser riuscita a conquistare la segreteria del Pd sbaragliando sul campo ogni resistenza opposta dalla vecchia guardia dem.

Era sembrato che confermassero questa vena di giovanile ardimento, scevro dalle solite titubanze del politico di carriera, anche le sue prime uscite. Si ricorderà con quale sicumera si era rivolta, appena eletta, a concorrenti interni ed avversari esterni. Con spavalderia li aveva messi in guardia su quello che dovevano aspettarsi da una giovane determinata come lei, del cui arrivo manco s’erano accorti.

«Non mi avete visto arrivare» – aveva sbottato, quasi ad avvisarli che il peggio per loro doveva ancora arrivare. Una volta insediata, però, s’è resa conto che la prova che l’aspettava era più difficile del previsto, e piena di rischi. A cominciare dall’attacco che ha subito sferrato contro i capi bastone del partito; primo passo per rivoltare come un calzino l’apparato del Pd. Eccezion fatta per il governatore campano De Luca che è partito lancia in resta contro di lei, tutti gli altri capicorrente l’hanno lasciata fare. Da vecchi marpioni quali sono hanno scelto la tattica della resistenza passiva. Se «la ditta» si fosse ripresa, come lasciavano intendere il repentino aumento dei tesserati e il recupero delle propensioni di voto certificate dai sondaggi, sarebbe stato tanto di guadagnato. Altrimenti? Non sarebbe la prima volta che un neosegretario, al primo passo falso, venga licenziato.

Che Schlein li abbia delusi, non c’è dubbio. Anche un suo sostenitore della prima ora, come Nicola Zingaretti, s’è lasciato sfuggire: «Con questa alle europee non raggiungiamo il 17%». Incerta su come ridisegnare l’organigramma del partito, anche sugli impegni politici è parsa incline a procrastinare ogni decisione: sul Meccanismo europeo di stabilità, sugli aiuti all’Ucraina, sul sostegno a Israele, sulla riforma della giustizia, sul fine vita.

Decisissima s’è mostrata solo nell’opporsi ad ogni proposta del governo, salvo schermarsi dietro un amletico «decideremo quando saremo al governo», quando è stata chiamata a definire il suo programma.

Un esempio: fieramente avversa al progetto del premierato, non ha proferito parola su come intende riformare un sistema di governo di cui tutti lamentano lentezze e incongruenze. Solo sull’antifascismo, sulla denuncia del governo Meloni ostaggio del fascismo non manifesta incertezze o reticenze. Ma questa è una confort zone, non una base di partenza per lanciare un’offensiva programmatica.

Ha risollevato, infine, il morale del Pd l’averla vista al question time di mercoledì scorso battagliare da pari a pari con Meloni. Risollevare il morale, però, non è ancora proporre una politica che renda credibile una candidatura alla guida del Paese. L’8 giugno è alle porte. Schlein non ha molto tempo per risolvere le incertezze.

© RIPRODUZIONE RISERVATA