Le politiche per trovare lavoro sono il vero nodo

Lo scontro sul blocco dei licenziamenti – va reso più selettivo dal 30 giugno o va prorogato in toto? – ha subito una deriva ideologica che rischia di farci perdere di vista un punto molto concreto: anche nello scenario futuro più roseo per la nostra economia, il mercato del lavoro post pandemia sarà differente da quello pre-febbraio 2020. Pensare che basti «congelare» per un altro po’ di tempo i rapporti di lavoro delle aziende in crisi per poi «scongelare» gli stessi quando saremo fuori dalla recessione è irrealistico. La ripresa, è vero, creerà nuovi posti di lavoro, e occorrerà prodigarsi – anche attraverso l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza – perché siano più numerosi possibile.

Ma le nuove occasioni di impiego si materializzeranno, in buona parte, in aziende e settori diversi da quelli che la pandemia ha colpito con più virulenza. Detto altrimenti, il processo di creazione di nuova occupazione non sarà speculare rispetto al processo di distruzione della stessa.

È già accaduto con la crisi dello scorso decennio: nel 2014 Mario Draghi, allora presidente della Bce, in un famoso discorso a Jackson Hole, osservò che lo shock del debito sovrano, i suoi contraccolpi per certi settori (vedi l’edilizia) e la lentezza nell’aggiornare le competenze dei lavoratori facevano crescere la disoccupazione strutturale pur in presenza di sostegni monetari e fiscali alla domanda.

Un’altra piccola dimostrazione l’abbiamo avuta nei primi mesi di pandemia: di fronte alla pressione montante sugli ospedali, la decisione di alcune Regioni di sbloccare assunzioni a lungo rinviate di medici e infermieri non è bastata a sopperire alle carenze di personale sanitario, per esempio nelle terapie intensive, dimostrando di nuovo che il capitale umano più appropriato per mansioni specifiche non si crea dal nulla. Allo stesso modo la transizione dal mercato del lavoro pre pandemia a quello post pandemia per molti italiani non sarà una passeggiata (dal vecchio al nuovo datore di lavoro). Per rendere tale transizione la più rapida e indolore possibile, sono imprescindibili dunque le «politiche attive»: servizi di assistenza e incentivi per la ricerca di un nuovo lavoro, formazione professionale per chi è senza un impiego o rischia il licenziamento, elaborazione e diffusione di informazioni accurate sui profili richiesti per l’assunzione in certi luoghi o settori, per esempio.

Il ministro del Lavoro Orlando ha assicurato che a inizio luglio, insieme a un progetto sugli ammortizzatori sociali, presenterà una riforma delle politiche attive. Dovrà poi discuterne con le Regioni che, oltre a quella esclusiva sulla formazione, hanno con lo Stato la competenza concorrente in materia. Certo l’urgenza è massima. L’Italia, infatti, spende lo 0,51% del Pil in politiche attive del lavoro, meno della media dei Paesi Ocse. Inoltre solo il 2% di queste risorse è dedicato agli strumenti ritenuti più utili sulla base dell’esperienza internazionale: intermediazione di lavoro (job mediation), inserimento lavorativo (job placement) e servizi annessi. Risultato: molti italiani stanno alla larga dai centri per l’impiego pubblici, giudicandoli sostanzialmente inutili. Solo la metà dei disoccupati vi si registra, e solo la metà dei registrati utilizza effettivamente i servizi a disposizione.

Un welfare amico dell’occupazione passa dunque per un ammodernamento delle competenze degli stessi dipendenti dei centri per l’impiego, per una completa digitalizzazione di questi hub e dei servizi che offrono, infine per una valutazione rigorosa della performance delle singole strutture. Nell’immediato, inoltre, si potrebbe introdurre, come in altri Paesi europei, la possibilità di cumulare il salario di un nuovo «lavoretto» e la cassa integrazione almeno per un periodo o fino a una certa soglia («garanzia di continuità del reddito», l’ha chiamata l’economista Giuseppe Croce). E allo stesso tempo potenziare – lo hanno proposto sul Foglio Andrea Garnero e Raffaella Sadun - forme di partenariato tra centri per l’impiego pubblici e agenzie del lavoro private, come già avviene in Lombardia.

Così si potrà fare fronte a un verosimile incremento delle richieste di riqualificazione e reimpiego nei prossimi mesi. Fuor di ideologia, sostenendo al contempo giustizia sociale e crescita economica.

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