L’economia tedesca in crisi. C’è bisogno finalmente di una Germania europea

La bilancia commerciale tedesca è in rosso. Non succedeva dal 1991. Con il calo dello 0,5% dell’export e il contemporaneo aumento del 2,7% delle importazioni il modello Germania è messo in discussione. La differenza con i surplus dell’8% degli anni d’oro è marcante. Dal 2019 il progressivo calare è quantificato in oltre il 22%. La pandemia, la crisi energetica, la guerra in Ucraina hanno segnato l’economia tedesca. La scelta della Germania in questi anni è stata chiara. Le esportazioni con gli extra profitti che si sono creati hanno alimentato i consumi interni senza ricorrere a debito.

Un modello che ha pubblicizzato e raccomandato anche agli altri Paesi. Va da sé che se tutti esportano e lo fanno in manufatti, come i tedeschi, si dovrà poi pur cercare qualcuno che importi. Quindi tutti sapevano che la sfida era su chi stava meglio sul mercato. E di questo i tedeschi erano sicuri. Il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble dei governi Merkel l’ha teorizzato: vincono i migliori. Per gli altri pazienza. Faranno i consumatori e importeranno merci tedesche. Come? Facendo debito. Gli americani l’han fatto per tanti anni e solo adesso hanno capito che la sovranità economica non si disgiunge da quella politica, anche se si ha il dollaro che monopolizza l’intermediazione degli scambi. E ai tedeschi andava bene così. Talmente sicuri di sé e della propria superiorità tecnica da truffare sulle emissioni dei motori diesel sul mercato Usa.

Su quello europeo non avevano problemi perché a Bruxelles fino ad ieri l’ultima parola l’hanno sempre avuta loro. E infatti è l’agenzia americana per i controlli ambientali che li ha colti con le dita nella marmellata. Ma per l’Europa il discorso è diverso. La moneta unica è un toccasana per l’export tedesco. Il made in Germany non deve più mettere a bilancio le svalutazioni competitive. Il mercato interno europeo accoglie infatti quasi il 60% dei prodotti esportati. Nei primi anni 2000 la politica economica tedesca ha mirato ad espandere i mercati in Europa e ha agevolato i consumi. I governi facevano debito e i tedeschi con lo sguardo rivolto alla bilancia commerciale non avevano nulla da ridire. Poi è arrivata la doccia fredda della Grecia e sui giornali tedeschi era uso leggere: e voi greci, vendete le vostre isole! Sottinteso a noi, che poi le usiamo per gli 11 milioni di teutoni che varcano le Alpi in cerca di sole. A quel punto il mantra è diventato: a voi del Sud Europa austerità. Ed è ancora oggi la raccomandazione della Bundesbank alle proposte della Banca centrale europea di porre un tetto allo spread tra i titoli italiani e greci in primis e quelli tedeschi. Se la speculazione va oltre una fisiologica sopportazione interviene la Bce con suoi acquisti.

La grande industria però svela i punti deboli ai quali è stata esposta negli anni delle vacche grasse. La Volkswagen è il marchio simbolo: ha il 40% della sua produzione in Cina. È un ostaggio di Pechino. Come lo è per il suo approvvigionamento energetico. Il rubinetto del gas è in mano a Putin. Il suo futuro industriale dipende da Elon Musk che può fare adesso il bello e cattivo tempo con l’auto elettrica. È avanti di un decennio nella tecnologia e nelle soluzioni, dalla guida senza conducente ai vari servizi intermodali. Così se la Germania vuole stare sul mercato ha bisogno di massa critica. Sia nei confronti del sornione Xi Jinping che del magnate americano. Per non parlare della Russia. La Germania ha bisogno disperatamente dell’Europa. Se vuole mantenere il suo benessere economico. L’unica speranza è che anche gli altri partner lo capiscano e incomincino a porre condizioni. Solo così si previene un’Europa tedesca e si dà realizzazione all’auspicio dell’ex cancelliere Helmut Kohl: una Germania finalmente europea.

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