Legge elettorale
e il Quirinale

Il legame fra il Quirinale e il destino del governo, se non della legislatura, è sempre più stretto: il centro di gravità, il punto d’attrito continua ad essere l’assetto dell’esecutivo. Con o senza Draghi, e con l’augurio di non perderlo. Manca il regista, l’uomo della sintesi, in quella che rischia di essere – per dirla con l’anziano socialista Rino Formica –una tombola e mentre si dovranno capire le reali intenzioni della discussa candidatura di Berlusconi, ripresosi quella scena sulla quale nessuno avrebbe scommesso. Il centrodestra sente che questo può essere il suo momento.

Tutto si tiene e così si può leggere il «patto di legislatura» proposto dal segretario del Pd, Letta, che contiene anche la riforma elettorale. Questione non trascurabile. Il principale esperto di flussi elettorali, Roberto D’Alimonte, s’è chiesto sul «Sole 24 Ore» se esiste veramente il rischio di elezioni anticipate. L’ipotesi ha una finestra temporale limitata, da febbraio all’incirca a maggio. In estate non si vota e in autunno inizia la sessione di bilancio con la manovra finanziaria. Il ricorso alle urne è chiesto esplicitamente solo da Giorgia Meloni, premiata dai sondaggi e che in Parlamento conta solo per il 4%. Salvini è altalenante e ha già verificato ai tempi del Papeete che tantissimi parlamentari non hanno intenzione di lasciare il posto. Ad esempio: i grillini, per effetto della riduzione di 345 fra deputati e senatori voluta proprio da loro, potrebbero perdere circa il 60% degli eletti. Salvini e Meloni, con l’attuale legge elettorale, hanno dalla loro i numeri.

Ma, ed ecco il punto, esiste la possibilità di un governo senza il centrodestra che concluda la legislatura? In teoria, secondo D’Alimonte, sì. L’arcipelago del centrosinistra più i rami sparsi, i «senza patria» del Gruppo Misto (oltre 100 parlamentari, mai così numerosi, anche se ognuno ragiona con la sua testa) e cespugli centristi, può raggiungere la soglia della maggioranza alla Camera. Al Senato i conti sono meno favorevoli al centrosinistra, ma l’operazione non sarebbe impossibile. Un governo di questo genere si può ritenere che per prima cosa cancellerebbe il Rosatellum, la norma elettorale in vigore, per tornare al proporzionale magari con soglie di sbarramento basse in modo da consentire ai partner minori di poter accedere a Camera e Senato. Rispetto agli anni ’90, l’esordio della Seconda Repubblica, il vento è cambiato: l’idea cioè che il maggioritario sia oggi un vestito inadeguato per un sistema politico molto frantumato e quindi sarebbe opportuno tornare alle alleanze che si fanno dopo il voto, in Parlamento, e non prima.

È la formula che più converrebbe allo stato di salute del centrosinistra e infatti Letta, alla direzione del Pd, anche se la sua preferenza resta per il maggioritario, non ha posto preclusioni sul proporzionale evocato da tutti i centristi e osteggiato dalla Lega e soprattutto da Meloni. C’è una maggioranza trasversale a favore del proporzionale e che comprende anche pezzi del centrodestra: la formazione di Toti-Brugnaro, che si muove nell’area centrale contigua ai renziani, non ha sottoscritto il documento pro maggioritario del centrodestra. Con il proporzionale il centrodestra perderebbe il vantaggio competitivo che ha sugli avversari ed è esattamente il pericolo che Salvini vuole evitare, ma per provarci non può sfilarsi dalla maggioranza: deve sedersi al tavolo della trattativa. Il nodo del sistema elettorale, peraltro necessario dopo il taglio dei parlamentari, e fin qui tenuto ai margini della corsa al Colle, rientra così dalla finestra, in quell’accordo-quadro che dovrebbe tenere insieme il binomio Quirinale-Palazzo Chigi. Un rebus più facile da raccontare che da risolvere.

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