L’Europa alla tedesca e il congedo di Angela Merkel

Dopo 16 anni alla guida della Germania, Angela Merkel prende commiato. A Roma trova gli interlocutori con i quali ha condiviso il suo potere. In Europa e nel mondo. Ha potuto contare su Papa Francesco nella difesa della pace mondiale e nella lotta al cambiamento climatico quando da Washington per bocca di Donald Trump piovevano accuse e minacce. Ma soprattutto ha condiviso con Mario Draghi la difesa dell’euro e dell’Unione Europea. In Germania il presidente della Banca Centrale Europea era diventato il bersaglio preferito non solo degli euroscettici ma anche di parte considerevole del mondo politico, finanziario, industriale, giornalistico ed intellettuale. Angela Merkel alla sua maniera, più spesso tacendo e senza apparire direttamente, gli ha guardato le spalle in modo leale.

A chi era preposto alla tutela dell’indipendenza politica dell’unica istituzione che può vantarsi di essere compiutamente europea non è mai mancato l’appoggio discreto della cancelleria, anche quando il ministro delle finanze Wolfgang Schäuble proponeva austerità e lacrime e sangue ai Paesi del Sud Europa, corrotti e ritenuti irresponsabili. Tutto questo è stato riconosciuto nel messaggio di saluto del capo del governo italiano. Draghi ha ringraziato e non erano messaggi formali da cerimoniale. «Merkel è stata una campionessa del multilateralismo quando altri Paesi si schieravano per il protezionismo e l’isolazionismo», ha detto a Palazzo Chigi. La difesa dei valori umani, l’apertura al mondo e ai mutamenti sociali è il marchio del suo cancellierato. E questo spiega anche l’accoglienza e la stretta di mano calorosa del pontefice al momento del loro incontro in Vaticano.

Fa ormai storia l’apertura delle frontiere nel 2015 ai rifugiati dalla Siria. Un milione di persone accolte all’insegna di «gliela faremo». Un azzardo ma anche un insegnamento: occorre sviluppare politiche di integrazione. Un’emergenza che diventa un’opportunità. Questa la lezione che anche il governo Draghi ha fatto propria con il G20 sull’Afghanistan. Ma l’Europa di Merkel non è quella di Helmut Kohl. Mancano le visioni e soprattutto si riafferma all’interno dell’Unione il principio della trattativa intergovernativa dove i singoli governi hanno l’ultima parola. Il risultato è che il Paese più grande può far valere il suo peso economico e politico e quindi meglio difendere gli interessi nazionali. Ed è quello che è successo in questi anni dove le grandi economie hanno imposto l’agenda politica alla Commissione di Bruxelles. Angela Merkel prende commiato a Roma dalla guida, da tutti riconosciuta, di un’Europa a trazione tedesca.

È stata eletta in Germania dal suo popolo, non ha preso un voto dagli elettori italiani o francesi o greci, europei in generale e purtuttavia ne ha condizionato i destini nei loro rispettivi Paesi. È questo il lascito del cancelliere politicamente più longevo del dopoguerra. Il segno tangibile dell’egemonia della Germania in Europa. E infatti in patria gliene sono grati. Ancora adesso è il politico tedesco in testa ai gradimenti, più del suo probabile successore Olaf Scholz. Un attaccamento agli interessi nazionali talmente marcato da credere di poter andare avanti all’ infinito nella difesa dell’industria tradizionale, quella che aveva indotto a pensare che l’export e solo l’export era sorgente di ricchezza. Prima di lasciare la presidenza semestrale dell’Unione nel 2020 ha stipulato con la Cina un accordo commerciale che ora a fronte degli ultimi eventi è stato congelato. Arrivavano intanto l’auto elettrica, le energie rinnovabili, la digitalizzazione, i microchips e i semiconduttori e la Germania si è scoperta fanalino di coda. Anche questo è Merkel.

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