L’Italia invecchia
Il nodo pensioni

Quota 100, quota 102, quota 104 o vecchia riforma Fornero? Davvero il futuro di milioni di lavoratori italiani dipenderà soltanto da una maggiore o minore generosità dello Stato nello staccare il loro assegno pensionistico? Chi in questi giorni assiste all’ennesima riproposizione del dibattito sulla riforma previdenziale vede all’opera una delle più pericolose illusioni del mondo contemporaneo, già prevista 90 anni fa dal filosofo e sociologo spagnolo José Ortega Y Gasset: «Immaginiamo che nella vita pubblica di un Paese qualsiasi nasca una difficoltà, un conflitto o un problema: l’uomo-massa pretenderà che immediatamente se lo assuma lo Stato, che s’incarichi direttamente di risolverlo con i suoi giganteschi e invincibili mezzi».

Solo che i mezzi dello Stato sono tutt’altro che «giganteschi e invincibili» al cospetto di un cambiamento demografico ben più potente. La spesa per pensioni in Italia già oggi assorbe il 66% delle uscite per prestazioni sociali; figuriamoci fra trent’anni quando la classe di età modale, cioè quella statisticamente più frequente, coinciderà con i 70-74enni, e quando persistendo l’attuale tendenza assisteremo a un calo di 9 milioni di unità della popolazione in età lavorativa (15-64 anni d’età). Considerati questi dati, la prospettiva andrebbe ribaltata. Invece di chiederci quale sia il primo momento utile per mandare in pensione i lavoratori che sono avanti negli anni, le forze politiche e sociali dovrebbero far convergere tutti i loro sforzi sull’obiettivo opposto: come conservare il più a lungo possibile la capacità produttiva e creativa di un numero crescente di italiani più anziani, come salvaguardare il processo di trasferimento della loro esperienza alle giovani generazioni.

Una volta stabilita l’opportuna flessibilità in uscita per i mestieri più gravosi, la stella polare dovrebbe dunque diventare l’invecchiamento attivo. Si tratta di un obiettivo nelle mani di imprenditori e sindacati, prima ancora che dello Stato. Sono loro a dover riformare l’organizzazione del lavoro, a dover stabilire - attraverso la contrattazione collettiva - percorsi di carriera che possano adattarsi a cambiamenti di anagrafe e condizione fisica dei dipendenti. In una fabbrica, per quanto automatizzata, come in una redazione di giornale e in un ufficio contabile, sarebbe irragionevole e in molti casi economicamente controproducente esigere che un 67enne svolga le stesse identiche funzioni di un 25enne. Non solo. Nel Paese che (per fortuna) ha la più alta speranza di vita del pianeta, da imprenditori e sindacalisti è lecito aspettarsi uno sforzo di creatività e rigore in più per adeguare i posti di lavoro a nuovi standard di sicurezza che li rendano idonei a persone in condizioni di salute cangianti col passare degli anni. Inoltre toccherebbe sempre alle parti sociali «battere cassa» in modo lungimirante, facendo di tutto per ottenere le risorse pubbliche necessarie per politiche attive e di formazione professionale continua. L’aggiornamento delle competenze, opportunamente modulato, è vitale per chi si affaccia al mercato del lavoro così come per chi è prossimo ad abbandonarlo.

Come riportato da Ferruccio de Bortoli sul Corriere della Sera, Fondimpresa - il Fondo interprofessionale per la formazione continua di Confindustria, Cgil, Cisl e Uil - stima che almeno il 60% degli occupati abbia bisogno di un aggiornamento digitale e il 30% di una riqualificazione totale. Preoccuparsi di non lasciar «scadere» tanto capitale umano è più lungimirante che stracciarsi le vesti per un ritocco al ribasso dell’età di pensionamento che graverà sulle tasse delle future generazioni. Infine meriterebbero di essere studiati modelli come i Silver Jinzai Center del Giappone, con 700.000 pensionati registrati e disponibili per lavori part-time (dal giardinaggio all’accudimento di super-anziani) sia per arrotondare il reddito che per mantenere un ruolo attivo nella società. Cosa impedisce di replicare e adattare questo schema, o di immaginarne altri, partendo da una semplificazione di contratti e oneri fiscali per gli over 65? Il benessere futuro dell’Italia e dei suoi cittadini non può dipendere soltanto da una soglia anagrafica fissata in Gazzetta Ufficiale. Solo pensarlo sarebbe un po’ deprimente, oltre che fin troppo semplicistico.

© RIPRODUZIONE RISERVATA