Lo sguardo umano sui migranti

ITALIA. Certe affermazioni sono così stonate che quasi mancano le parole per controbattere, talmente grande è lo sconcerto. Di fronte alla strage di migranti sulla costa crotonese, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha detto che «la disperazione non può mai giustificare condizioni di viaggio che mettono in pericolo la vita dei propri figli», quasi si trattasse di decidere se uscire o meno sotto un nubifragio.

E concediamo pure il beneficio del dubbio che nella pressione del momento l’infelice frase sia scivolata via, senza soppesare bene la portata dei concetti, tanto che poi il ministro ha cercato di aggiustare il tiro. Ma ora che quelle parole sono state dette, ha ragione Enrico Galiano, professore di Pordenone e scrittore: dobbiamo dirlo a chiare lettere che non siamo d’accordo, dobbiamo gridarlo che siamo da un’altra parte, su un altro livello. Perché su questa frase, e altre scivolate via negli ultimi mesi anche dalla bocca di altri esponenti del governo, passa uno spartiacque rispetto allo sguardo che vogliamo avere sul mondo, pensando proprio ai nostri figli.

Chi siamo noi con la nostra vita tranquilla e protetta di fronte alla disperazione indicibile di una madre e un padre iraniani che vedono figlie e figli uccisi, incarcerati, avvelenati; chi siamo per dir loro di reprimere l’umano e istintivo desiderio di libertà e di non partire. E così con madri e padri afghani, iracheni, pakistani che sognano per i loro figli la nostra stessa tranquillità.

Chi di noi non darebbe la vita per la vita dei figli; chi di noi non sarebbe pronto a rischiare per loro. Come ha scritto la poetessa britannica Warsan Shire, nata in Kenya da genitori somali in fuga, «nessuno mette i propri figli su una barca, a meno che l’acqua non sia più sicura della terra». E ancora: «Nessuno lascia casa a meno che la casa non sia la bocca di uno squalo».

Se quei padri e quelle madri affrontano il rischio del mare in tempesta è per cercare l’essenziale di una vita degna, non il di più, non il superfluo. È perché la promessa di felicità possibile che vedono in quel mare è più grande di ogni rischio che vi si possa insidiare. E perché il confine da oltrepassare è esattamente quello tra una vita negata, già quasi morta, e una vita possibile.

Dopodiché, la gestione del fenomeno migratorio è un tema, è un problema. E per fortuna, come sempre ormai da qualche anno a questa parte, ci ha pensato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella a indicare la strada, esprimendo «cordoglio per le vittime» e «vicinanza ai naufraghi, cui va assicurata un’adeguata accoglienza»; sollecitando «un forte impegno della comunità internazionale per rimuovere le cause alla base dei flussi di migranti; guerre, persecuzioni, terrorismo, povertà, territori resi inospitali dal cambiamento climatico»; e chiedendo all’Unione europea che «assuma finalmente in concreto la responsabilità di governare il fenomeno migratorio per sottrarlo ai trafficanti di esseri umani, impegnandosi direttamente nelle politiche migratorie, nel sostegno alla cooperazione per lo sviluppo dei Paesi da cui i giovani sono costretti ad allontanarsi per mancanza di prospettive».

Affrontiamolo questo problema, con onestà intellettuale e non per raccattare voti. Affrontiamolo seriamente, ricordandoci, benché possa sembrare cinico ma è la realtà, anche quanto grande sia la crisi demografica del nostro Paese e quanta la fame di manodopera di migliaia di imprese che garantiscono il nostro benessere. Facciamolo, senza pregiudizi né ideologie da nessuna parte politica. Governiamo i flussi migratori, che nessun porto chiuso potrà mai fermare perché sono nella storia dei popoli, compreso il nostro, e promuoviamo seriamente una cooperazione internazionale che restituisca condizioni degne a Paesi che spesso ne sono privi anche per responsabilità nostre.

Facciamolo. Ma per favore, restiamo umani, della stessa umanità pietosa di quella signora ottantenne, da poco vedova, Nicoletta Parisi di Botricello (Catanzaro), che ha offerto la cappella di famiglia perché almeno alcuni di quei bimbi morti in mare senza poter capire cosa stesse succedendo abbiano un degno riposo. Restiamo umani. E rispettiamo, almeno, il dolore di chi non ha più nulla da perdere e affida al mare le speranze della propria vita.

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