Manovra al fotofinish, maggioranza ricompattata

Italia.Con l’arrivo in Commissione Bilancio dei trenta emendamenti concordati tra i partiti della maggioranza, il governo cerca di accelerare l’iter della manovra di Bilancio per consegnare entro oggi all’aula di Montecitorio il testo definitivo della Commissione, ottenerne il voto (di fiducia, probabilmente) in modo tale da passare la palla al Senato in tempo per l’approvazione definitiva entro il 31 dicembre.

Il rischio di cadere nell’esercizio provvisorio di Bilancio non è naturalmente escluso e non lo sarà fino a quando almeno la Camera non avrà licenziato il testo (lasciando a Palazzo Madama una mera ratifica mediante voto di fiducia), però la maggioranza sembra aver ritrovato il proprio ubi consistam dopo giorni di autentici sbandamenti. Al punto che il Mef (ministero Economia e Finanze) aveva fatto trapelare che non avrebbe avuto nulla da ridire se il Parlamento avesse deciso di approvare il testo governativo senza modifiche, salvo quella resa obbligatoria sull’utilizzo del Pos. Anche questo però sarebbe stato un brutto episodio: la mancata possibilità per il Parlamento di discutere e modificare la legge di Bilancio non è certo un esercizio corretto di democrazia parlamentare. Ma, appunto, stando a quanto ha detto ieri sera il relatore Pella (Forza Italia) annunciando il deposito dei trenta emendamenti – su cui c’è il via libera del Tesoro e della Ragioneria Generale - quest’altro rischio non dovrebbe essere corso.

Non c’è dubbio che la maggioranza stia faticando molto per portare a casa il Bilancio: basti pensare ai sei pacchetti diversi di emendamenti che sono stati presentati per capire che la dinamica tra i tre partiti alleati non è stata affatto semplice, con ognuno di loro che puntava sui contenuti più identitari, o elettoralistici che dir si voglia. Cui peraltro si è dovuto in gran parte rinunciare. Il caso più recente è quello dello scudo penale per gli evasori che si ravvedono: un emendamento firmato dal relatore Pella è stato ritirato in fretta e furia, quasi negando di averlo mai voluto veramente presentare, di fronte alla minaccia delle opposizioni di ricorrere all’ostruzionismo, tattica che avrebbe sicuramente comportato il ricorso all’esercizio provvisorio con una conseguenza politicamente devastante per il governo di Giorgia Meloni e persino per la tenuta della maggioranza. Ma l’altro caso clamoroso è stato il tetto all’utilizzo del Pos che aveva portato a 60 euro il limite entro il quale il commerciante può rifiutare il pagamento digitale senza incorrere in sanzioni. Una misura su cui la Meloni in persona aveva puntato moltissimo ma che è stata annientata dal veto della Commissione europea che ha ricordato al governo italiano di aver assunto precisi impegni di lotta all’evasione al momento in cui ha sottoscritto il Next Generation Eu tradotto nel Pnrr finanziato con circa 200 miliardi provenienti da Bruxelles in gran parte sotto forma di sussidio. Ma molte altre decisioni sono state largamente ridimensionate: la flat tax per le partite Iva che doveva arrivare a 100mila euro e si è fermata a 85 (mentre quella per i dipendenti è del tutto scomparsa). Oppure l’aumento delle pensioni minime a 1.000 euro come avrebbe voluto Berlusconi che si è fermato a a 600 (e solo per gli over 75). Ridimensionate anche le misure di condono fiscale – la rottamazione delle cartelle chiesto dalla Lega – e l’allargamento dell’uso del contante. Ciò che però è importante, agli occhi di Bruxelles e dei mercati, è che il governo ha rispettato gli impegni presi a suo tempo da Draghi di mantenere sotto controllo i saldi di Bilancio e dunque i conti pubblici, confermando la strada di rientro dal debito salito a livelli inimmaginabili a causa della pandemia.

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