(Foto di Ansa)
ITALIA. Mentre la legge di bilancio si stava avviando, trotterellando mediocremente, all’approvazione con voto di fiducia e solito Parlamento tagliato fuori, Giancarlo Giorgetti ha annunciato ben 3,5 miliardi aggiuntivi rispetto ai 18,7 iniziali.
Sembrano destinati a salvare la faccia della finora supina Confindustria, facendo diventare triennali i sollievi sugli ammortamenti, finanziando la lista d’attesa di Industria 5.0 e allargando le provvidenze per il Mezzogiorno. Per coprire il nuovo saldo (finora intoccabile) c’è aria di qualche magia con i fondi Pnrr ma pare che il grosso verrà pagato dalle Assicurazioni (cioè dagli assicurati) e da Salvini, facendo slittare il «suo» ponte sullo Stretto. Certo è innegabile un ravvedimento in corsa, che costerà ai senatori le feste tra Natale e Capodanno e ai Babbo Natale del Mef l’ammissione che quella di ottobre era davvero una leggina.
Più in generale, resta un interrogativo sulle scelte di Giorgetti: meglio puntare alla tenuta complessiva dei conti o dare un aggiustamento vero a taluni problemi del cittadino, come tasse, pensioni, lavoro, liste d’attesa che comunque restano fuori anche da questa correzione in extremis? È un dilemma diabolico, quasi un ricatto, perché è evidente che i conti sotto controllo sono la premessa di tutto. Il debito resta alto: siamo arrivati a 3.132 miliardi, 800 più del Pil della Russia in guerra, ma il deficit fa invidia a tanti in Europa, e anticiperemo addirittura l’uscita dalla procedura di violazione della normativa europea. Il costo del debito che viaggiava verso la stratosfera di 100 miliardi, è ora bloccato, con lo spread sceso a qualche decina di punti (quando travolse l’ultimo governo Berlusconi, viaggiava sui 500).
L’altra faccia della medaglia è però quella che tocca nell’immediato i cittadini che fanno la spesa non alla Borsa di Londra ma al mercato rionale. Per loro, anche la sorpresa di Via XX Settembre non cambia niente. Resta l’affanno dei consumatori, il respiro corto dei lavoratori dipendenti alle prese con i bassi salari, l’incertezza sul futuro dei pensionati e dei pensionandi. Forse, anziché ascoltare ogni sera al Tg i trombettieri che esaltano inesistenti riduzioni delle tasse, risicati investimenti in sanità, posti di lavoro ancora precari, sarebbe stato un grande merito del Governo vantare la scelta della severità nella spesa. Oltretutto, mancano decisioni fondamentali fuori dal bilancio, a cominciare da una politica industriale di cui è emblematica la vicenda acciaio, sempre più rovinosa.
Nella legge finanziaria ci voleva in ogni caso un po’ più di coraggio. La questione ceto medio in sofferenza poteva essere affrontata arrivando a modificare l’aliquota fiscale fino a 60mila euro, incidendo per 10 punti complessivi su quello spazio decisivo che si prende sul gobbo la gran parte dell’Irpef. Lo ha chiesto settimana scorsa la Cisl, senza bisogno di fare uno sciopero generale per questo, ma intanto l’emendamento depositato da Luigi Marattin è già stato bocciato a priori. Certo sarebbe costato di più, ma la dichiarazione dei redditi di milioni di lavoratori avrebbe registrato una sensibile differenza, non i pochi euro all’anno oggi ottenibili. Bastava rinunciare a quello che si è preferito spendere in cambio: la demagogia diseducativa di un’ennesima rottamazione dall’esito peraltro incerto. Insomma, il guaio delle leggi di bilancio politicizzate è quello di inseguire i simboli. Basti pensare all’idea che le riserve auree della Banca d’Italia appartengono al popolo (che infatti si ciberà d’ora in poi con i lingotti…). O al tentativo (fallito) di farsi restituire i soldi usati per comprare quote nel Mes, quell’organismo che poteva dare un aiuto vero e decisivo alla nostra sanità. Siamo stati alla larga unicamente per non dire grazie all’Europa, che è sempre matrigna, a destra e sinistra. Dimenticando che senza Pnrr (ancora da realizzare, siamo a metà spesa, ad andar bene) saremmo in recessione.
Chi ha accettato i vincoli con l’Europa, dopo iniziali follie, come Grecia, Spagna e Portogallo, sta ora meglio di noi. Anche sistemando i conti, restiamo in fondo alla classifica, specie nelle materie decisive: ricerca, innovazione, produttività.
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