Mattarella, il ricordo della politica che sa vedere

ITALIA. Non sorprende che Sergio Mattarella abbia scelto di partecipare alla cerimonia per il trentennale della morte di Giovanni Goria ad Asti. Non solo perché fu ministro dei Rapporti col Parlamento nel suo esecutivo, a 46 anni (Goria ne aveva appena 44, il più giovane presidente del Consiglio della storia del Dopoguerra, prima che arrivasse a Palazzo Chigi Matteo Renzi, nel 2014).

Ci sono alcuni tratti di questo cavallo di razza democristiano scomparso prematuramente, a soli 51 anni, simili all’attuale Capo dello Stato. Non si tratta solo della comune cultura cattolico-democratica, ma anche di una speciale predisposizione a spiegare alla gente le cose difficili, entrandone in sintonia, oltre a una naturale sobrietà di carattere e di compostezza politica. Ricordo un’intervista televisiva in cui l’economista di Asti spiegò a Raffaella Carrà che cos’era il Fondo monetario internazionale («una grande banca fondata da tutti gli Stati del mondo che presta soldi ai Paesi in difficoltà» disse, lo si può trovare nelle teche in Rai). Goria aveva scelto la sobrietà per governare ed era talmente schivo - come del resto la maggior parte della gente della sua terra astigiana – che il vignettista Forattini lo disegnava senza volto, solo con barba e baffi. In realtà era tutt’altro che una nullità e anche nel suo breve periodo in cui fu presidente del Consiglio di un pentapartito litigioso e instabile, fra gli attacchi di Craxi e la mal sopportazione di De Mita (che avrebbe preferito andare al suo posto a Palazzo Chigi, come poi avvenne) varò una politica in cui si conciliavano rigore e sensibilità cristiana. Fu lui a introdurre i vari documenti di programmazione economica e a determinare gli obiettivi annuali, «affinché fosse chiara la direzione di marcia ed efficace la verifica dei risultati dell’azione di governo», come ha spiegato Mattarella.

La formazione e la durata dell’esecutivo Goria, considerato dagli storici di transizione, coincidono con la crisi di un sistema politico che sarebbe collassato qualche anno dopo con la fine del comunismo e l’azione dei giudici di Mani Pulite. La verità è che l’uomo politico aveva preconizzato quel che sarebbe avvenuto, nonostante non fosse ancora caduto il Muro di Berlino. La capacità profetica è la prima dote dei grandi gestori della cosa pubblica. Ieri Mattarella ha citato il passaggio di un discorso pronunciato dall’ex presidente del Consiglio alla Camera: «Attraversiamo un momento di particolare difficoltà come classe politica, pare a me che vada diffondendosi un clima di disorientamento, nel quale sembra che ciascuno tenda a operare un po’ come nel vuoto, in attesa di fatti che dovrebbero risolvere problemi ma che nessuno sa indicare. Non è possibile che la classe politica non assuma fino in fondo le proprie responsabilità, come dovere dell’oggi e non solo come attesa di un domani che non sappiamo ancora definire». Non erano ancora venuti Tangentopoli e le stragi del ’93 che avrebbero cambiato il volto della Repubblica. Tra l’altro il destino volle che fu il sottoscritto a dargli l’annuncio della strage di Firenze, la mattina del 27 maggio 1993, avendo preso un appuntamento telefonico per un’intervista pochi minuti dopo la notizia dell’attentato. Lui - già malato - rimase in silenzio all’apparecchio per qualche secondo, tetro, chiese i particolari che si sapevano dalle agenzie e poi commentò: «La democrazia è in pericolo», senza aggiungere altro. La sua era la sfida della concretezza - ha detto ieri il presidente della Repubblica - riprendendo, in questo, l’insegnamento di uno dei suoi grandi estimatori, Giovanni Marcora, leader della sinistra di base. «Voleva, e sapeva, assumersi il rischio del governare. Proprio l’avvio di una fase nuova di sviluppo era concepito come prova di credibilità del rinnovamento della politica, di un nuovo gruppo dirigente. Percepiva fortemente - ha aggiunto - l’insofferenza di aree territoriali e ceti sociali per le inefficenze e gli squilibri accumulati, avvertiva quindi la necessità di porre fine alle distorsioni corporative che pesavano sulla società italiana. Si confrontava con gli altri Paesi europei. Questioni ancor oggi di grande attualità».

Per questo il Capo dello Stato, non solo per motivi legati al suo passato politico, ritiene Goria un faro per attraversare le nebbie del nostro incerto futuro politico alle prese con le consultazioni europee. Lo è anche perché Goria aveva intuito che la modernità della nostra Costituzione sta nell’articolazione delle istituzioni e degli altri organismi associativi, capace di superare contrasti e contrapposizioni politiche. È questa la democrazia. All’estremo di questa articolazione c’è solo la piazza e il populismo.

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