Meloni paga un deficit di classe dirigente

Il commento. Il battesimo della Meloni premier non poteva riuscire meglio. È arrivata a Palazzo Chigi da guerrigliera dell’opposizione e subito è stata capace di reinventarsi nel ruolo istituzionale di capo del governo. Si è prontamente riappacificata con l’Europa. Si è trovata a suo agio nella promozione degli interessi italiani all’estero, avvalorandosi come partner leale ed affidabile dei nostri alleati storici, a partire dagli Stati Uniti.

Ha messo a tacere (per il momento) i suoi due alleati scomodi, Salvini e Berlusconi, che avevano già cominciato, se non a insidiarne, almeno a logorarne la leadership. Non è arretrata nel confronto con gli avversari, Landini compreso, e non ha ceduto di un passo dalle sue posizioni. Non ha perso tempo, aprendo il cantiere delle riforme promesse, a partire dal fisco. Ha guadagnato così in credibilità anche presso l’opposizione.

Le buone azioni della leader di FdI non potevano, però, riuscire a emendare la destra dal suo peccato originale. Un peccato d’orgoglio che l’ha condannata a restare nel ghetto della politica nazionale per quasi mezzo secolo. Peccato d’orgoglio - va detto - in buona parte provocato dalla demonizzazione che i partiti del cosiddetto «arco costituzionale» le hanno indirizzato bollandola di illegittimità. Peccato che le è costato caro con l’esclusione e isolamento dal circuito culturale e mediatico nazionale. Si ricordi che, ancora negli anni Settanta, la presenza a Tribuna politica di un esponente del Msi faceva scattare la defezione degli altri partiti.

Il prezzo pagato dalla destra per questa emarginazione è stato assai alto: asfissia culturale e deficit di classe dirigente. Per cinquant’anni e più il Msi non ha fatto che rimasticare le vecchie ricette del Ventennio (stato nazionale del lavoro, corporativismo, nazionalismo) senza riuscire a riformulare un pensiero, una dottrina, un progetto capaci di fornire una risposta adeguata alle sfide di una società in tumultuosa trasformazione. Parallelamente, il suo personale politico non è riuscito a condurre altre esperienze di governo che negli enti locali. Due deficit, questi, cui la destra non poteva rimediare di colpo al momento dell’assunzione di responsabilità di governo.

È palese l’affanno che Fratelli d’Italia accusa nella selezione del personale di governo. Lo si è registrato prima in campo amministrativo. Nelle elezioni comunali di Roma ha scelto come candidato un outsider sconosciuto e amministrativamente sprovveduto (Enrico Michetti) con il risultato di ottenere per la coalizione, invece che un valore aggiunto, una forte penalizzazione.

Assistiamo in questi giorni all’impaccio che le procurano non poche figure di primo piano chiamate a rivestire posizioni di comando al suo vertice. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi non ha trovato di meglio, di fronte alla tragedia dei profughi annegati a Curno, di rimproverare loro di aver osato sfidare il mare in tempesta. Il vice presidente del Copasir Giovanni Donzelli ha lanciato il sospetto sui parlamentari del Pd andati in carcere a visitare l’anarchico Cospito di tramare con i terroristi. Il presidente della società pubblica, la 3-I SpA, Claudio Anastasio, si è reso responsabile di una improvvida dichiarazione: ha parafrasato il discorso di Mussolini nel quale il duce rivendicò il delitto Matteotti. Tre uscite, tre svarioni, che hanno creato grande imbarazzo nel governo e palesato le manchevolezze di una classe dirigente. Serve un ripensamento serio. La Meloni non può pensare di sopperire con il suo attivismo politico ad una carenza di ceto politico che viene da lontano e che proietta una pesante ombra sulla credibilità e sull’autorevolezza della sua leadership.

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