Molte ore, pochi soldi: così si ruba la dignità

Italia. Gli aggettivi non bastano più e uno li riassume tutti: atipico. In verità si va avanti così da quasi vent’anni, da quando la flessibilità è diventata la parola magica per affrontare tutti i guai.

Il risultato è disastroso e oggi finalmente il lavoro atipico è definito con il suo vero e drammatico nome: lavoro povero. È il tradimento finale della Costituzione, lo sgretolamento progressivo del pilastro fondamentale del patto di cittadinanza della Repubblica «fondata sul lavoro». L’articolo 36 («Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa») morto e sepolto da quelli che gli inglesi chiamano «bullshit jobs», lavori spazzatura, lavoro che fa star male, ruba dignità, fatica a riempire il piatto, indebolisce la libertà personale e scardina i valori della democrazia. L’Italia è prima in Europa nelle forme di lavoro «atipico», salario sotto la soglia della povertà, sfruttamento, per usare un eufemismo, lavoro schiavo per dire le cose come stanno.

Tra il 1990 e il 2020 nel nostro Paese si è registrata una diminuzione del salario medio di quasi il 3 per cento, numeri senza pari in Europa dove il salario è sempre aumentato, in alcuni Paesi, Francia e Germania, a due cifre. Non c’è regione in Italia in controtendenza. Anche nelle zone più ricche, come la Bergamasca, la tendenza spinge da tempo verso forme di flessibilità odiosa. Così tutti gli aggettivi oggi abitualmente associati al lavoro, sono del tutto fuori dal perimetro di copertura del dettato costituzionale. Ma ogni giorno c’è qualcuno che scova per il lavoro un aggettivo sempre più creativo e canaglia, indice di inciviltà e di ingiustizia sociale. Troppi lavoratori domestici e operai agricoli, troppi impiegati intellettuali guadagnano 3 o 4 euro all’ora, uno scandalo che non sfiora nessuno.

Gli applausi dell’altro ieri per l’occupazione che aumenta sono la reazione ipocrita di chi non vede la luna, cioè quel 20 per cento di lavoratori poveri che stanno fuori da qualsiasi dibattito politico e sindacale. Non hanno forme di rappresentanza, non accedono ad alcuna contrattazione collettiva e non ci sono paracadute in Italia per paghe troppo basse.

La Direttiva europea sul salario minimo non obbliga nessuno. C’è in 21 Paesi su 27. Non lo hanno Italia, Danimarca, Cipro, Finlandia, Austria e Svezia. È vero, forse hanno ragione alcuni studiosi che non serve a granché, ma può indurre ad affrontare meglio le diseguaglianze e soprattutto a mettere un freno ai salari pirata. In ogni caso sarebbe poca cosa, perché si discute di spiccioli, 9 euro all’ora, che vuol dire avere salari netti di poco superiori a mille euro. E con quei soldi si fa poco.

Eppure oggi in Italia ci sono 4 milioni e mezzo di lavoratori che mettono in tasca meno di 9 euro: il 26 per cento dei lavoratori privati, il 35 per cento degli operai agricoli, il 90 per cento dei lavoratori domestici. La manovra di bilancio in discussione in Parlamento non segna alcun cambio di passo, anzi ripropone i voucher, i buoni lavoro, uno dei sistemi più ripugnanti di contrattazione precaria. Il punto vero è la debolezza della struttura globale di relazioni industriali e del circolo vizioso di un’economia da cui si esce soltanto riducendo le quote di reddito da capitale, nel valore aggiunto del sistema, trasformandole in quote di reddito da lavoro, unico strumento di contrasto del lavoro povero, trappola sociale, che impedisce alle persone di beneficiare e di concorrere «al benessere materiale e spirituale della società»(Costituzione, articolo 4)

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