Myanmar, l’ombra
di Cina e Russia
Parliamo di 500 mila militari e relative famiglie su una popolazione totale di 57 milioni di persone. L’idea era di erodere pian piano quel potentato, e in nome di questo progetto Aung San Suu Kyi si è anche acconciata a qualche brutto compromesso, come quello di «coprire» le violenze contro le minoranze, in primo luogo quella musulmana dei Rohynga, attirando così sul Paese e su se stessa, nel 2019, la condanna dell’Onu e quella della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja.
Vani sono stati anche i tentativi di limitare l’invadenza politica dei militari, che gestiscono come un feudo personale il 25% dei seggi del Parlamento. L’ora del giudizio è scattata con le elezioni politiche del novembre scorso, vinte a valanga (80% dei consensi) dalla Lega nazionale per la democrazia guidata dalla Premio Nobel. Un risultato così netto da spalancare le porte alle riforme che avrebbero potuto mettere le briglie alle ambizioni e agli interessi dei generali. Questi hanno reagito denunciando oltre diecimila casi di brogli elettorali e arrestando o sottomettendo tutti gli esponenti del potere civile.
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