Nelle piazze le proteste
dei meno garantiti
Chi specula e il nodo vaccini

Si temeva che aprile sarebbe stato un mese più difficile degli altri: per l’effetto combinato fra il piano vaccini non ancora a pieno regime e il riemergere dell’emergenza economica. La successione logica e praticabile è delicatissima: dosi-vaccini-riapertura. Un pezzo che non funziona ha ricadute sugli altri, tuttavia il punto d’equilibrio non è impossibile. Il governo ha investito tutto sulla ragionevole prevalenza di questo meccanismo con l’obiettivo di 500 mila vaccinazioni al giorno per fine mese, in modo da chiudere la partita a settembre, ma si procede ancora a ritmo lento. Il percorso è più complicato del previsto: nel tutelare il diritto alla salute e, nel farlo, senza danneggiare ulteriormente l’economia. C’è anche la variabile piazza che, a oltre un anno dallo scoppio della pandemia, va messa nel conto. Ieri una manifestazione non autorizzata a Roma, di nuovo tensione dopo gli incidenti di una settimana fa e una serie di proteste diffuse sul territorio. Conviene ricordarlo con tutta la delicatezza del caso: c’è un pezzo di Paese prostrato, che soffre più degli altri i costi di misure dolorose e necessarie, legittimato ad esprimere un grido d’aiuto nella legalità. E con il blocco fino a giugno dei licenziamenti nelle grandi aziende temiamo di non aver visto ancora tutto, dopo aver già contato quasi un milione di posti di lavoro in meno in un anno.

Tormenti reali su ceti innocenti, forse non adeguatamente rappresentati, ma certo le prime vittime, e con loro il Paese, di chi intende soffiare sul fuoco, sui dividendi di un consenso pronto cassa. Un brutto gioco antico, questo, che l’Italia conosce bene. Dietro questi focolai non c’è una regia unica, ha detto la ministra dell’Interno Lamorgese, e naturalmente non sono tollerate aggressioni e comportamenti violenti.

Però su un tessuto sociale a rischio logoramento c’è pure un qualcosa di già visto, in parallelo ad una inascoltata lezione di storia patria: qualche estremista di troppo, alcuni soliti noti, parole lanciate come pietre da qualche cattivo maestro. Un rumore sordo cresciuto d’intensità nella pancia del Paese, ma non maturato nelle idee. Il rischio, come sempre, è il frantumarsi in parti distanti e reciprocamente ostili, e guai – come è stato osservato – se le categorie in sofferenza coltivassero l’idea che la risposta può venire soltanto fuori dal sistema. Lo Stato c’è e ci sarà ha detto Draghi durante la recente visita a Bergamo, richiamo ripetuto da tutti i vertici istituzionali. Bisogna crederci perché è così, ma la mano pubblica e politica potrebbe fare di più e meglio.

L’area sociale vulnerabile chiede un soccorso tempestivo e più solido, l’aspettativa di essere creduta nelle proprie ragioni, un qualcosa che assomigli ad un progetto che fissi date ed obiettivi almeno per rendere sostenibile l’incertezza esistenziale. Stato e Regioni continuano a pensarla diversamente, c’è a tratti l’ingombrante presenza di un egoismo territoriale e di un protagonismo provinciale, il chiacchiericcio politico è lunare, qua e là c’è sempre la tentazione di mettere la bandierina di partito, non è chiara la gerarchia dei valori e delle urgenze della maggioranza, la stessa Europa dopo essere partita bene ha pasticciato sui vaccini.

La doppia presa di un’emergenza sanitaria non ancora risolta, di una battaglia tuttora in corso e di una recessione che taglia in due l’Italia dei garantiti e dei non garantiti, in un Paese peraltro dalle istituzioni fragili, richiede un supplemento di responsabilità inteso come dovere civico. Bisogna però sbrigarsi, almeno sulla campagna vaccinale: il tempo, a questo punto, è tutto.

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