Non esiste un diritto
garantito a morire

La posta in gioco era altissima. E la Corte Costituzionale ieri sera lo ha certificato dichiarando inammissibile il quesito del referendum proposto dai Radicali sull’eutanasia legale. Perché, diciamo con chiarezza, è quello a cui puntavano i Radicali dell’Associazione Luca Coscioni. Il referendum, attraverso il sistema del ritaglio di parole e frasi qui e là dell’art. 579 del Codice penale, che regola l’omicidio del consenziente, intendeva aprire la strada a nuove disposizioni, senza che ci sia una legge vera e propria. Sarebbe stata una «normativa di risulta» troppo estrema, ha spiegato la Consulta, che non avrebbe garantito una tutela nemmeno minima della vita umana e soprattutto di quella delle «persone più deboli e vulnerabili». La decisione ha due aspetti.

Il primo è tecnico perché già in passato la Consulta non aveva ammesso quesiti che portavano come risultato, in caso di approvazione del referendum, a leggi che nascevano con il taglia e cuci. Il secondo aspetto è nel merito della questione e riguarda i diritti. La Corte spiega insomma che non si può giungere ad una reazione estrema di tipo libertario, quasi unilaterale arrivando ad un’autodeterminazione assoluta del proprio corpo, cioè della propria vita. In questo modo infatti non sarebbe preservata la tutela minima, costituzionalmente necessaria, della vita umana. Il referendum puntava invece proprio ad una libertà assoluta circa la disponibilità individuale della vita, giungendo alla fine alla depenalizzazione dell’omicidio del consenziente, anche di quello sano.

L’accenno alle persone più deboli e fragili è altrettanto importante, perché sarebbe passata l’idea che tutto ciò che è debole può essere tagliato, tutto ciò che è fragile si può senza tante storie espellere dal perimetro della società, essendo la vita una sorta di disponibilità privata. La Corte Costituzionale ha rimesso le cose a posto, spiegando che esiste un confine tra una posizione liberale e una posizione libertaria. In questi mesi, dopo la raccolta delle firme, che hanno superato il milione mezzo, molte raccolte con facilità on line e molte di giovani, si era aperto un dibattito preoccupante, spesso connotato da mancanza di razionalità, sul significato della morte. Con la paura della morte ha giocato pesante chi ha proposto il referendum, convinto di farcela sia alla Consulta e poi all’appuntamento referendario. Insomma è scattata una sorta di trappola ideologica e dalla pietà per chi muore si è passati in un baleno ad invocare la morte per pietà.

La Consulta non si è lasciata trascinare in dibattiti politici né fuorviare da campagne mediatiche. Ha mantenuto, come sempre nella storia della Repubblica, alta la dignità sulla scrittura delle norme e la fedeltà alla Costituzione. Qualcuno potrebbe addirittura meravigliarsi. Ma la Corte aveva in passato già ricordato che non esiste un diritto costituzionalmente garantito a morire, né un diritto all’autodeterminazione individuale sulla vita, che resta un bene indisponibile a chiunque, dovendo fare i conti con l’art.2 della Costituzione sui diritti inviolabili dell’uomo a cui appartiene la vita. Ma non tutto finisce qui, perché una legge sul fine vita è necessaria per evitare anche gli estemporanei e pasticciati interventi dei tribunali. Finora per accidia politica il Parlamento, prima non ne ha voluto sapere, poi ha fatto di tutto per evitare di trovare un accordo su un testo giusto e chiaro, che si occupi della vita dei sofferenti, delle cure palliative e non solo dell’aiuto a morire. È stata l’omissione del Parlamento a facilitare la deriva che avrebbe provocato il referendum. E per evitare altri possibili naufragi, altri rischi e altri danni ora una legge va fatta e bene.

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