Ora Giorgia sgomita
e Salvini scalpita
per metterla all’angolo

Cade un’altra tegola giudiziaria sulla testa di Matteo Salvini: ora è il Tribunale di Palermo che chiede l’autorizzazione a procedere contro di lui per sequestro di persona e abuso d’ufficio. La vicenda in questione è il divieto di sbarco disposto dall’allora ministro degli Interni per i profughi che si trovavano sulla imbarcazione Ong Open Arms al largo di Lampedusa. Lui, Salvini, non se ne dà pubblicamente un gran pensiero: «Sono processi politici, sono fiero di quel che ho fatto», dice.

In realtà questa calma ostentata non riesce a nascondere il timore che la Lega e il suo leader possano essere oggetto di una offensiva dei giudici su altre e più spinose questioni, magari sui viaggi a Mosca o ancora sulla storia dei conti dell’epoca di Bossi (forse non a caso la Lega Nord è stata definitivamente affidata proprio nei giorni scorsi a una sorta di commissario liquidatore). I timori del gruppo dirigente si uniscono ai borbottii che si sono avvertiti qua e là intorno alla campagna elettorale in Emilia Romagna.

Salvini ha personalizzato ancora una volta, dopo la crisi di agosto, la sua battaglia alla conquista del «trono rosso» per poter dare una spallata al governo. Poiché l’operazione non è riuscita (perché la Lega è sì cresciuta, e anche tanto, ma non abbastanza) adesso Salvini deve accettare che si personalizzi anche la «sconfitta». Le critiche alla campagna elettorale, compreso l’azzardo del citofono, arrivate da Giancarlo Giorgetti si fermano però di fronte al fatto che comunque la Lega di Salvini sta ferma sul suo cocuzzolo del 32% come dimostra l’ultima rilevazione di Nando Pagnoncelli. Non sale ma neanche scende, e resta saldamente il primo partito italiano. Semmai Salvini comincia ad innervosirsi un po’ per la crescita costante di Fratelli d’Italia e di Giorgia Meloni. Il partito della destra conquista posizioni a ogni tornata elettorale - è ormai sopra il 10 per cento - ma soprattutto è la sua leader a guadagnarsi una stima e una reputazione molto significative e ampie (anche all’estero, da ultimo il New York Times l’ha inserita in una lista mondiale di personalità influenti, e lei lo ha persino snobbato). Fateci caso: qualche tempo fa si prevedeva che la Meloni avrebbe fatto il sindaco di Roma post Raggi, e che Salvini avrebbe sistemato lì la sua alleata. Adesso invece l’ipotesi Campidoglio viene seccamente stroncata dai dirigenti di FdI: «L’Italia ha bisogno di Giorgia, non solo Roma» dice il suo braccio destro Fabio Rampelli. Il messaggio è chiarissimo: il posto che le spetta è in vetta, come coprotagonista. Oltretutto della Meloni si apprezza anche l’essere stata coerente nelle alleanze, dichiarandosi disposta solo ad una maggioranza di centrodestra e rifiutandosi di flirtare coi Cinque Stelle; e poi che la sua campagna elettorale non abbia avuto gli aspetti più pop del suo alleato, e persino che in politica estera sia apparsa più misurata e prudente nel parlare. Insomma, «Giorgia» non è più la «ragazza della destra», è una leader sicura di sé, molto empatica, con un peso crescente e determinatissima a farlo valere. Sarà anche per questa ragione che Salvini ha fatto sapere che i patti già stretti con gli alleati di centrodestra per le candidature nelle regioni che andranno al voto vanno rivisti: soprattutto tornano in discussione i nomi di Raffaele Fitto di FdI in Puglia e di Stefano Caldoro di Forza Italia in Campania. «I patti si mantengono» rispondono con una certa irritazione i portavoce della Meloni. Ma Salvini probabilmente ha bisogno di mettere un punto alla crescita della sua (ormai ingombrante) partner di coalizione e di far capire che il numero uno è sempre lui.

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