Pd, l'ultima spiaggia
con la pax lettiana

In una comunità politica sinistrata, Enrico Letta nuovo segretario del Pd rappresenta l’ultima spiaggia, l’estrema risorsa di un partito-sistema che, secondo i sondaggi, sta declinando verso il quarto posto nel gruppone centrale con Cinquestelle e Fratelli d’Italia. La scelta di quello che è stato
il primo premier delle larghe intese fra 2013 e 2014 risponde a tre psicologie e situazioni: necessità, convinzione, disperazione. Vedremo l’intreccio di questi fattori in un Pd vissuto sull’infelice combinazione tra leaderismo e deriva correntizia, con il risultato di 8 segretari e tre scissioni in 14 anni di vita. Letta, che sarà costretto a reinventarsi combattente, dovrà lottare «contro venti e maree», come dice un suo libro del 2017. Ne avrà bisogno in questa ricucitura degli opposti.

Un esordio misurato ma chiaro negli obiettivi, comunque non mosso dalla rivincita dopo i 7 anni di esilio a Parigi, abbandonati anche per dare un contributo personale alla dignità della politica. Una parentesi, quella parigina, vissuta «serenamente» dopo essere stato defenestrato dallo stesso partito che oggi lo ha arruolato. La pax lettiana, declinata con parole pacate, è il primo passo per evitare l’equivalente di quel che è successo ai socialisti francesi, in cui l’ala destra è andata con Macron e l’ala sinistra con i sovranisti di sinistra. Un partito che, quando la casa brucia, chiama un cattolico-democratico là dove quasi tutti i precedenti leader di estrazione diessina hanno abbandonato il campo. Letta segna una discontinuità rispetto a Zingaretti, il leader che non è riuscito a governare l’apertura della nuova stagione inaugurata dal governo Draghi.

Lo schema cambia. Il neo segretario ha parlato più da uomo delle istituzioni e di governo che non da capo partito, come del resto usa nelle democrazie mature, con una formula mentale che suona come risposta ai malpancisti interni, perché si colloca a pieno titolo sulla linea del governo Draghi: un sostegno alla stabilità dell’esecutivo e una garanzia che non finisca per scivolare sul fianco destro dell’anomala maggioranza. Un partito dalle porte aperte ed espansivo all’esterno che, nelle intenzioni e in un contesto non favorevole, non insegue l’autosufficienza, ma l’ambizione di costruire un nuovo centrosinistra. Questo è il nocciolo del contrasto interno, il punto dirimente con i grillini e con Conte: una coalizione su iniziativa e leadership del Pd, non subalterna. Pur detto in modo garbato, il messaggio è mirato: prima l’identità dei dem, poi le alleanze, non date però in appalto ad altri. Un fronte progressista alternativo alla destra su tutti i fronti, già con una sfida esplicita a Salvini. Letta ha marcato il terreno del centrosinistra sulla questione migranti, dove la Lega segna i propri confini: da qui il rilancio dello ius soli, una questione di civiltà giuridica nel cassetto da tempo, cioè l’azione legislativa per cambiare le norme sulla cittadinanza. Si sa da dove viene il nuovo leader e del resto lo dicono le sue ascendenze (Prodi, Delors), si conosce la sua piattaforma (ambientalismo e giustizia sociale), ma in più in questi anni alla guida della Scuola di Affari internazionali a Sciences Po ha maturato analisi non convenzionali sul retroterra del populismo che risulteranno utili nel dialogo-confronto con i Cinquestelle. Le manovre del Pd, i tormenti grillini e le possibili evoluzioni della Lega confermano lo schema che s’è imposto in tempi eccezionali: il governo Draghi non significa la fine della politica, ma di una certa politica fin qui praticata, costringendo i partiti a una riflessione autocritica.

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