Pensioni, stop
all’emergenza

Quasi un milione di italiani, in un anno, ha perso il proprio lavoro. Un altro milione di italiani è attualmente in cassa integrazione. Inoltre 100 mila posti di lavoro saranno a rischio, secondo l’Ufficio Parlamentare di Bilancio, quando finirà il blocco dei licenziamenti introdotto durante la pandemia. Numeri sconvolgenti, che solo a metterli in fila fanno paura, e ai quali si può attribuire almeno un merito: in un Paese in cui l’imprenditoria è stata a lungo bistrattata se non addirittura demonizzata, questi dati ci ricordano che le «aziende» non sono arcigne entità astratte ma innanzitutto organizzazioni composte di persone – dirigenti, collaboratori, quadri o operai – con le loro idee e la loro voglia di rischiare e fare. E tutto ciò oggi è in pericolo.

Diventa quindi comprensibile che associazioni datoriali come Confindustria, ma anche alcuni tra i sindacati confederali, facciano appello a soluzioni straordinarie per puntellare la ripresa. Tra questi rimedi, per esempio, c’è l’idea presentata al presidente del Consiglio Mario Draghi dal numero uno degli industriali, Carlo Bonomi, il quale ha chiesto di «ridurre la soglia d’accesso al contratto di espansione portandola a 50 dipendenti dagli attuali 250, collegando questa misura ai bonus per l’assunzione di giovani e donne».

Il «contratto di espansione» è uno strumento introdotto nel 2019 per gestire, nel modo meno traumatico possibile, fasi di riorganizzazione e ristrutturazione profonde delle aziende. Tale contratto prevede l’intervento della cassa integrazione per facilitare eventuali processi straordinari di riqualificazione del personale, e soprattutto – questa la forma attualmente più usata – l’alleggerimento degli organici a fronte di un impegno certo a favore del ricambio generazionale e della ricerca di nuove professionalità. Semplificando: lo Stato offre un sostegno pubblico a forme di scivolo pensionistico fino a 5 anni prima della pensione di vecchiaia (67 anni) o di anzianità (42 anni e 10 mesi di contributi indipendentemente dall’età) – scivolo originariamente riservato alle aziende con oltre 1.000 dipendenti, soglia via via abbassata – in cambio dell’assunzione di dipendenti più giovani.

Considerata la gravità dell’emergenza in cui ci troviamo, ci sarebbe poco da eccepire a uno schema simile, potenzialmente virtuoso. Le aziende infatti da una parte si liberano, senza conflittualità, di personale mediamente più costoso, magari non all’apice della propria produttività, e dall’altra parte investono su giovani freschi di studi e appena formati che oggi si scontrano con un mercato del lavoro ingessato.

Nulla però in Italia è più definitivo del provvisorio. Che lo abbia detto Ennio Flaiano o Giuseppe Prezzolini, la sostanza dell’aforisma rimane intatta. Il «contratto di espansione», per quanto giustificabile qui e ora, rischia di non fare eccezione. Non possiamo nascondere, infatti, che siamo stati a lungo il Paese dei «baby pensionati», o il Paese che è dovuto arrivare nel 2011 a una riforma traumatica delle pensioni per il fatto di aver mercanteggiato per decenni in Parlamento sull’età pensionabile (dentro lo «scalone», fuori lo «scalone», in base alle esigenze della maggioranza politica di turno). Patronati e sindacati, in svariate occasioni, hanno dimostrato di avere un debole per le soluzioni che fanno tutti felici nel breve termine e scaricano gli oneri (il costo dei prepensionamenti, in questo caso) sulle future generazioni di contribuenti. Non solo. La situazione demografica italiana, tra bassa natalità e forte aumento dell’età media, imporrebbe già oggi di smetterla di trattare con modalità «emergenziali» l’invecchiamento della forza lavoro.

Secondo gli ultimi dati Istat, la popolazione in età attiva, cioè tra i 15 e i 64 anni d’età, oggi in Italia è pari a 38,2 milioni di persone, ed è scesa dal 67,1% del totale della popolazione nel 2002 al 63,9% nel 2019. Sono sempre meno, dunque, i potenziali lavoratori. Finita l’emergenza pandemica, invece di affrettare i pensionamenti con l’aiuto dei soldi pubblici, la priorità dovrà essere quella di formare e riqualificare i dipendenti più anziani, di coinvolgerli e non di escluderli, di metterli in condizione di contribuire allo sviluppo aziendale e del Paese. È questione di giustizia, oltre che di crescita.

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