Petrolio, G7 compatto: una risposta inevitabile

A più di sei mesi dall’invasione russa in Ucraina nessuno può ignorare che anche noi europei stiamo vivendo un conflitto parallelo, anche se non sanguinoso, come una specie di Metaverso finanziario, basato non sui carrarmati, i bombardamenti e i missili bensì sull’energia. L’economia fa da eco alla violenza orrenda dell’Ucraina.

Famiglie e imprese continuano a ricevere bollette sempre più astronomiche, l’inflazione è a due cifre, tutti abbiamo capito che il gas, oltre che per riscaldare, serve come arma geopolitica, potentissima e devastante. Per il momento questo conflitto non fa male, non uccide, ma costa. E soprattutto, come sempre nelle guerre, grava in particolare sui più poveri, su chi guadagna mille e duecento euro al mese e si vede rosicchiare lo stipendio del 10% e oltre, o a chi è costretto a chiudere l’attività per bollette quintuplicate.

Uno dei quartier generali di questa guerra parallela è a Bruxelles, l’altro è a Mosca. Putin continua a rispondere alle sanzioni occidentali con ritorsioni sul gas, apre e chiude i rubinetti del gasdotto Nord Stream, che porta il gas russo in Europa, come una rivoltella puntata sul Vecchio Continente. L’Unione risponde annunciando un tetto al prezzo del gas e soprattutto del petrolio. Immediata la risposta di Mosca: il petrolio e il gas, in caso di un tetto ai prezzi, «semplicemente non ci saranno più». Ed è un paradosso della storia che l’Occidente liberista attui misure stataliste e l’ex Urss attraverso la voce dell’ex premier Medvedev, quello che nella commedia del Cremlino fa la faccia cattiva con l’Europa, si lamenti subdolamente in nome del libero mercato. Ma la guerra è questa, come meditava Andreij Bolkonskij in «Guerra e pace», è il capovolgimento delle leggi più giuste e più umane in nome della sopraffazione.

Nel frattempo ripartono le forniture di Nord Stream, dopo la sospensione per la riparazione dell’unica turbina partita il 31 agosto, uno di quegli strani incidenti che capitano in Russia, dove gli oligarchi cadono dal sesto piano degli ospedali e muoiono. Le quotazioni calano. La borsa di Amsterdam respira, ma fino a quando? Intanto, come annuncia il «Financial Times», i ministri del G7 delle Finanze si preparano ad annunciare un accordo per introdurre un «price cap» al petrolio russo, nel tentativo di limitare i guadagni del Cremlino sulle esportazioni e ridurre il sostegno finanziario alla sua guerra contro l’Ucraina, in linea con gli embarghi decisi con le sanzioni.

Se siamo arrivati a questo punto, è perché la strategia di Putin sull’energia, la sua guerra parallela, non lascia più alternative. Abbiamo stoccato riserve per sopravvivere all’inverno ma la legna portata in legnaia l’abbiamo pagata a peso d’oro, per la legge della domanda e dell’offerta. I prezzi sono schizzati alle stelle. Come nella guerra del Kippur, l’Europa sta pagando la crisi più degli Stati Uniti. Famiglie e imprese non riescono più a reggere tale pressione, l’Unione, dopo aver speso 200 miliardi di euro per calmierare i prezzi deve agire, la Bce, che sta a Francoforte, ha sempre presente lo spettro inflattivo di Weimar. La Russia è economicamente in ginocchio ma non è detto che anche l’Europa non paghi un prezzo esorbitante e devastante. La buona notizia è che i 27 Stati membri si muovono ormai quasi all’unisono, a cominciare dalla Germania, la più riottosa finora rispetto alle decisioni prese a Bruxelles. Il tetto al gas preso all’unisono può calmierare i mercati senza alimentare le importazioni sottobanco. Serve un’autorità centrale (anche questa un paradosso, un’abiura rispetto al vangelo liberista dell’Occidente), altrimenti è impossibile dominare i prezzi. Sempre che ci riescano. Perché fissare i prezzi, per legge, con un editto, in un mercato globalizzato, è sempre molto difficile (lo sappiamo dai tempi di Diocleziano con il suo Editto sui prezzi massimi miseramente fallito). Va detto che tutto questo, la strategia per combattere le contro-sanzioni di Putin, richiede tempo. Tempo soprattutto per creare un mercato europeo dell’energia, anche se gli accordi con i Paesi del Maghreb fanno ben sperare. Ma arrivare all’autonomia energetica per un Paese energivoro ma privo di materie prime come il nostro, mettere in pratica una transizione anche ecologica, eolica, solare, nucleare, richiede anni, se non decenni, non illudiamoci.

© RIPRODUZIONE RISERVATA