Politica estera, la debolezza ha un prezzo

Il commento. L’Italia va al Consiglio europeo di oggi e domani con la sua linea rigorosamente atlantista. Garantisce Giorgia Meloni con la benedizione di Sergio Mattarella: l’Ucraina va aiutata anche con le armi, «chi dice fermatevi dovrebbe riferirsi a Putin; chi non vuole che l’Ucraina abbia i mezzi per difendersi vuole la vittoria di Mosca», parola di premier, durissima e netta.

C’è chi definisce «polacca» questa linea, cioè più filo Nato che filo Ue, ma sta di fatto che Meloni ha scelto una posizione chiara e non si muove di un passo. Ma cosa sta succedendo intorno a lei? Succede che la Lega è inquieta, e che Berlusconi per ora si sforza di non dire un’altra volta come la pensa su Zelensky. Ieri si è molto chiacchierato intorno all’assenza dei ministri leghisti mentre la premier riferiva in aula alla Camera sul Consiglio europeo di oggi: chissà se è stato un caso o se invece Salvini lo ha fatto apposta. Ma di sicuro non è stato un caso il discorso che il capogruppo salviniano al Senato, Romeo, ha tenuto l’altro ieri quando ha detto che si aspetta da Meloni un maggiore sforzo «per più equilibrio, più dialogo per la pace» in quello che ha definito «deserto della diplomazia» in cui non è consentito «neanche il minimo dubbio». Più chiaro di così.

Bisogna anche aggiungere che questi nervosismi di via Bellerio sono anche il prodotto della trattativa che i partiti della maggioranza stanno portando avanti per decidere chi andrà ad occupare le centinaia di poltrone in scadenza nelle società partecipate dallo Stato (con giganti come Enel, Eni, Finmeccanica, Rai, Cdp, ecc.). Una trattativa talmente faticosa che, se si allunga l’orecchio in Transatlantico ad ascoltare ciò che si dice nei capannelli dei deputati del Carroccio, si capisce che lo scontento è tanto e che l’accusa è sempre la stessa: Giorgia vuole decidere tutto lei. E siccome in politica bisogna sempre mettere insieme l’alto e il basso per capire cosa succede, il malumore sull’Ucraina si somma al malessere per le nomine, e così si arriva all’incidente, voluto o casuale, dei ministri assenti in aula. Ma se guardiamo la scena da fuori, da Bruxelles o da Washington, l’impressione è che Meloni in politica estera sia più isolata di quando ha cominciato a governare, anche se tutti sapevano come la pensano Berlusconi e Salvini su Putin e Zelensky.

Inoltre c’è da ricordare che, fin quando al Pd c’era Letta, Meloni poteva contare sull’appoggio del partito di opposizione più legato all’establishment internazionale, a Mario Draghi come a Romano Prodi. Oggi al posto di Letta c’è Elly Schlein che non si capisce bene come la pensi sull’Ucraina: ieri in aula non si è fatta vedere nonostante l’importanza del dibattito lasciando che Giuseppe Conte si prendesse tutta la scena con il suo «pacifismo senza se e senza ma». Il Pd toglie la parola «armi» dalla sua mozione e la sostituisce con «sostegno», e così si mette in una posizione ambigua che, mirando a tutelare gli interessi del «partito di sinistra», finisce per non essere né carne né pesce.

Conclusione: Meloni in politica estera ha una maggioranza che, pur compatta formalmente e nelle votazioni, fatica a mantenersi unita dietro alla premier la quale non ha più nemmeno il sostegno implicito di un Pd sempre più orientato ad accarezzare le piazze arcobaleno. È difficile che, arrivando a Bruxelles, qualcuno non faccia notare alla presidente italiana che questa è una posizione di obiettiva debolezza. E la debolezza nei rapporti internazionali si paga.

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