Qualche rinuncia tocca anche alla premier

IL COMMENTO. La partita delle nomine, il tormentone che ci accompagna di fatto dalla nascita del governo di centrodestra, è arrivata al finale con le poltronissime finalmente assegnate. Ne seguiranno altre decine tutte importanti ma nessuna quanto Eni, Enel, Poste, Leonardo (nomine ufficializzate ieri) e Terna (attese per oggi o entro la settimana).

Il caso che sta facendo più discutere in queste ore riguarda l’Enel, il gigante dell’energia che la gestione uscente di Francesco Starace ha condotto ad essere il primo produttore al mondo di rinnovabili ma anche ad accumulare una montagna di debiti. A governarlo sarà il tandem Paolo Scaroni (presidente) e Flavio Cattaneo (a.d.): l’uno rientra in scena per volontà di Forza Italia, l’altro per quella di Matteo Salvini. Sembrava che Giorgia Meloni non avrebbe mai mollato sul nome di Stefano Donnarumma (a.d. uscente di Terna) come amministratore delegato di strettissima fiducia e nemmeno sul veto a Paolo Scaroni che, quando era a capo dell’Eni, condusse a nome di Berlusconi una politica tutta pro-Putin nell’approvvigionamento di petrolio e gas. E invece Meloni ha rinunciato a Donnarumma e ha tolto il veto a Scaroni del quale non si fida per ovvie ragioni geopolitiche.

In compenso, la presidente del Consiglio porta a casa la conferma del fidato Claudio De Scalzi all’Eni e di Matteo del Fante alle Poste e la nomina di Roberto Cingolani a capo di Leonardo-Finmeccanica. Se poi Donnarumma lascerà Terna per un incarico in Cassa Depositi e Prestiti, Meloni potrebbe mantenere l’impegno di collocare una donna al vertice di una delle aziende pubbliche più grandi, quella che gestisce la rete elettrica appunto, e la scelta cadrebbe in questo caso su Giuseppina Di Foggia, top manager internazionale e amica personale della premier e della sua famiglia.

Qual è il senso politico di questo valzer? Che Giorgia Meloni fa la parte del leone nella lottizzazione del potere ma non le viene consentito di essere l’unica a decidere. Sembrava che Lega e Forza Italia avrebbero dovuto contentarsi di qualche strapuntino e invece, insieme, riescono a strappare a Fratelli d’Italia addirittura l’Enel. Per loro è una grande vittoria: Giorgia deve capire che non governa senza Matteo e i seguaci di Berlusconi anche se ha il doppio dei loro voti messi insieme, e quindi è giocoforza scendere a patti e fare delle rinunce. Gli alleati da tempo borbottavano per il potere che si sta concentrando a palazzo Chigi tra i pochi intimi di Meloni, e quando parlavano di «metodo Draghi», lo facevano per ricordare con astio un periodo in cui venivano loro comunicate le nomine mezz’ora prima di darle alla stampa. Ora si sono presi la rivalsa. C’è da aggiungere che all’ultimo minuto Forza Italia ha deciso di far tornare al tavolo delle trattative l’uomo più abile di cui disponga, Gianni Letta, oscurato da tempo dalla corte di Arcore. Insieme, Letta e Salvini hanno affondato Donnarumma e resuscitato Scaroni.

Peraltro a Meloni non manca neanche qualche problema interno, persino con Guido Crosetto, il suo più affezionato mentore, che da ministro della Difesa avrebbe voluto vedere al vertice dell’ex Finmeccanica un manager interno di lunghissimo corso, Mario Mariani. In questo caso non c’è stato verso di convincere Meloni: sulla poltrona che è stata a lungo del banchiere di sinistra Profumo doveva salire l’ex ministro Cingolani, spinto a quel posto da Claudio Descalzi. Da notare che le quotazioni di quest’ultimo sono enormemente cresciute da quando ha portato prima Draghi e poi Meloni a parlare con tutti quelli che nel mondo possono venderci gas e petrolio al posto di Putin. Un mondo di emiri, re, dittatori e generali che neanche l’espertissimo Draghi poteva conoscere.

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