Quali paesi sicuri, in gioco il destino delle persone

ITALIA. La risposta non è «non possiamo accoglierli tutti» ma ripensare l’attuale gestione delle migrazioni mettendo al centro la salvaguardia delle persone.

Le due guerre in corso a Gaza e in Ucraina, gravi anche perché potrebbero ridisegnare l’appartenenza di territori sancita dal diritto internazionale attraverso l’Onu e avere quindi effetti geopolitici ulteriormente destabilizzanti, hanno oscurato dal punto di vista mediatico altri fenomeni che generano morte, come la fuga da conflitti, violenze, povertà e dai disastri del cambiamento climatico. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, il 2024 è stato l’anno con il più alto numero di decessi lungo le rotte migratorie (8.938 vittime, 2.452 nel Mediterraneo tra le quali 120 minori). Dal 2013 ad oggi oltre 28mila migranti hanno perso la vita nel «Mare Nostrum», oltre 22.300 delle quali lungo la rotta centrale. Numeri tragici che meriterebbero ben altra risposta da parte dei governi, non solo europei.

La sentenza della Corte Ue

La sentenza di venerdì 1 agosto della Corte di giustizia dell’Ue «smonta» il cosiddetto «modello Albania» del governo Meloni (peraltro apprezzato da altri partner dell’Unione e dalla presidente della Commissione, Ursula von der Leyen) e va oltre. Sancisce infatti la garanzia a un giudice ordinario di valutare i Paesi sicuri di origine nei quali riaccompagnare gli immigrati. Nell’elenco degli Stati di rimpatrio scelto dai governi europei non vanno incluse nazioni nelle quali in alcune aree minoranze o individui siano perseguitati o minacciati. La delibera della Corte è avvenuta dopo il ricorso di due cittadini del Bangladesh salvati in mare e poi destinatari di un provvedimento di rimpatrio dall’Italia. Le domande di asilo di persone provenienti da Paesi definiti sicuri possono essere esaminate con una procedura accelerata e sommaria, che permette di detenerle nei centri in Albania mentre aspettano l’esito. Inserire uno Stato nella lista dei «sicuri» rende più facile respingere le richieste di asilo di chi arriva da quello Stato e quindi l’espulsione. Nell’elenco del 2024 il governo italiano, in seguito a un decreto, considera non rischiosi Albania, Algeria, Bangladesh, Bosnia, Camerun, Capo Verde, Colombia, Costa d’Avorio, Egitto, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Nigeria, Perù, Senegal, Serbia, Sri Lanka e Tunisia. Balza all’occhio in particolare l’ultimo nome: a Tunisi infatti regna un regime illiberale che da anni porta avanti una campagna di discriminazione verso chi proviene dall’Africa subsahariana, fino ad abbandonare nel deserto i migranti respinti, senza acqua e senza cibo: si può definire una condizione sicura? Solo con una forzatura cinica, non accettabile anche se stabilita per decreto, anzi.

Nella lista ci sono altri Paesi che invece non garantiscono l’incolumità a minoranze etniche, religiose, a persone omosessuali o a difensori dei diritti umani. Alcuni degli Stati designati non a rischio non figurano in nessun elenco adottato dagli altri Stati dell’Ue. Non si tratta come è evidente di una questione solo normativa, riguardando il destino e la vita delle persone. La Libia non rientra nei casi di «procedure accelerate» ma ogni giorno avvengono respingimenti nel Mediterraneo verso la «quarta sponda», dove da anni è provata la destinazione di migranti in veri e propri lager nei quali subiscono torture, violenze sessuali quando non vengono uccisi.

Gestione da ripensare

La risposta a questa grande tragedia non è «non possiamo accoglierli tutti» ma ripensare l’attuale gestione delle migrazioni mettendo al centro la salvaguardia delle persone, del loro valore e della loro dignità. La reazione scomposta del governo italiano alla sentenza della Corte di giustizia Ue non va in questa direzione, definendola addirittura «un’umiliazione degli italiani» quando invece riguarda tutti i Paesi dell’Unione. Non giovano nemmeno gli attacchi alla stessa Corte definita addirittura «un’istituzione dannosa».

Lo Stato di diritto si fonda sul principio che la legge nasce per tutelare il singolo dal possibile arbitrio del potere costituito. L’erosione di questa condizione e il depotenziamento delle autorità sovranazionali non porteranno nulla di buono ma ci consegneranno, come già accade nei conflitti, al prevalere dei rapporti di forza, non della giustizia.

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