Quirinale a Draghi
I partiti frenano

Dalla tradizionale conferenza stampa di fine anno abbiamo capito quello che già sapevamo per intuito e logica: Mario Draghi è pronto a candidarsi alla presidenza della Repubblica per sostituire Sergio Mattarella, giunto al termine del settennato e per nulla intenzionato a prolungare il mandato (circostanza che avrebbe semplificato di moltissimo la questione). Pur senza annunci espliciti, che non erano certo da aspettarsi, Draghi ha disseminato tali e tanti indizi da portarci alla conclusione che si aspetta da tempo.

Per esempio quando ha detto che il governo «ha raggiunto gli obiettivi» e che va avanti «indipendentemente» da chi ci sarà a guidarlo da qui alla fine della legislatura, frase che completa quanto detto agli ambasciatori («Il Pnrr non è di questo governo ma dell’intero Paese») e aggiunge l’elemento più atteso dai deputati e senatori peones desiderosi di rimanere a Montecitorio e a Palazzo Madama fino al 2023, e cioè che non è il caso di andare ad elezioni anticipate con tutto il da fare che c’è. Altro indizio molto chiaro: «Potrebbe - si chiede Draghi - questa maggioranza dividersi sull’elezione del Capo dello Stato e poi tornare unita sul governo?».

Questo vuol dire che il governo e dunque la legislatura sarebbero comunque a rischio se lui, unico che oggi può godere sulla carta di una larghissima maggioranza, dovesse cedere il passo ad un candidato identificabile con una sola parte, che poi sarebbe il centrodestra più aggregati (Renzi). Con queste parole, sia pure dissimulando le proprie intenzioni dietro un apparente disinteresse («Il mio destino personale non conta nulla, sono un nonno al servizio delle istituzioni») ora di fatto abbiamo Draghi in campo.Le prime reazioni dei partiti, tuttavia, non sembrano incoraggiare il presidente del Consiglio. Infatti tutti - dal M5S al Pd, da Berlusconi alla Lega - elogiando l’attività del governo ne chiedono la «continuità» che tradotto in italiano corrente, significa: caro Mario resta al tuo posto, continua a lavorare a Palazzo Chigi, all’Italia servi lì. Che è poi quanto a Draghi vanno ripetendo in parecchi al di qua e al di là dei confini nazionali, dalla Confindustria ai partner europei. Cosa motiva la frenata dei partiti? Da una parte il desiderio di scegliersi un candidato al Colle senza sentire che Draghi sia loro imposto dalle circostanze; sentimento che in Berlusconi si colora anche di una ambizione personale coltivata contro ogni evidenza.

E poi c’è il timore che, una volta assurto Draghi al Quirinale, a Palazzo Chigi sia necessario sostituirlo con un tecnico di minore presa (Daniele Franco? Marta Cartabia?) che non avrebbe la stessa forza per mantenere unita una maggioranza così eterogenea dove partiti avversari sono costretti ogni giorno a collaborare tra loro. Si tratterebbe di un indebolimento del governo che metterebbe a rischio sia la campagna vaccinale che l’attuazione del Pnrr ma anche, in ultima analisi, la tenuta della legislatura. Insomma, con Franco si correrebbe il rischio di andare a votare in primavera, e questo nessuno lo vuole. Controprova: l’unica a spingere per Draghi al Colle è anche l’unica interessata in questo momento alle elezioni anticipate perché prevede che le urne le arriderebbero, e cioè Giorgia Meloni. Tutti sanno che pur di scongiurare anche la sola ipotesi di una Meloni presidente del Consiglio e dell’Italia governata da un partito che aderisce al circuito della destra sovranista, a Bruxelles, a Berlino e a Parigi si farebbero carte false. E certo anche l’alleato Salvini non può desiderare la vittoria della sua concorrente. Quindi ai partiti - tutti tranne FdI - servono stabilità, continuità, tempo. Ma la partita è molto complicata e la verità è che nessuno, tra leader politici molto deboli, è in grado di assumersi il compito di regista della situazione. Come fece nel 1985 De Mita facendo eleggere Cossiga al primo colpo o D’Alema e Veltroni che nel 1999 portarono Ciampi al Colle sulla carrozza d’oro di un’amplissima maggioranza…

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