Referendum, ci saranno conseguenze politiche

ITALIA. Di una cosa gli elettori possono essere certi: comunque vada, il referendum avrà delle conseguenze politiche. O in un senso o nell’altro. Chi sta decidendo se andare a votare o astenersi, se andare e votare sì oppure no, deve sapere che comunque, una volta tirate le somme, i partiti cercheranno in tutti i modi di tirare l’acqua al loro mulino.

Come è noto, il referendum su cinque quesiti è stato voluto da Maurizio Landini che ha fatto raccogliere le firme ai militanti della Cgil (ancora alla guida di una discreta macchina di voti). Quando Landini ha imposto la prova ai partiti dell’opposizione, questi ultimi non hanno potuto far altro che saltare sul carro. Il quesito per rendere più facile la cittadinanza italiana agli stranieri è chiaro a differenza dei quattro che invece riguardano il diritto del lavoro, come sempre fumosissimi nella formulazione: si propongono di colpire le riforme più odiate dalla sinistra cigiellina, quelle a suo tempo approvate dal governo Renzi e note come «Jobs act» (che peraltro il Pd votò disciplinatamente). Non è del tutto certo, spiegano i giuristi, che l’effetto del referendum - qualora fosse valido e vincessero i sì - sia davvero il ritorno al tempo antico dello Statuto dei Lavoratori degli anni ’70 con annesso il mitico articolo 18 sui licenziamenti.

Il ruolo della Cgil

Tuttavia la battaglia della Cgil mira a dare una svolta alla politica del lavoro, tantopiù oggi che governa la destra nel tentativo di imporle di nuovo il sindacato come interlocutore obbligatorio e vincolante. Landini ci gioca sopra la sua personale partita: se gli va bene, potrà sempre rivendicare il risultato e anzi scendere in campo come il «federatore» del litigioso arcipelago del centro-sinistra-sinistra di Schlein, Conte e Fratoianni. Questi ultimi sanno bene che la posta in gioco è anche questa e dunque, per non dare troppa guazza a Landini, hanno virato l’attenzione tutta sul governo. E cioè: se il referendum riuscirà a raggiungere il quorum (la metà più uno degli aventi diritto), dunque raccogliendo davanti alle urne un po’ di più di una dozzina di milioni di elettori, questo sarà interpretato come intimazione di «sfratto» al governo Meloni che appunto alle elezioni mise insieme pressappoco la stessa cifra di italiani. Lo ha detto il piddino Boccia: basterà prendere qualche voto in più della Meloni nel 2022 e il gioco è fatto, vorrà dire che «gli italiani vogliono mandare a casa il governo della destra». Incurante del fatto che il referendum e le elezioni politiche saranno anche cugini ma alla lontana, incurante della concreta possibilità che di quei voti una parte sarà dei «no», cioè dei contrari al referendari; incuranti di tutto questo, Pd, M5S e AVS sono pronti ad annettersi il risultato, e questo anche un po’ a spese di Landini che potrebbe fare la fine di chi, come si diceva un tempo, scuote l’albero perché i frutti li raccolga qualcun altro.

La regola del quorum

Ma intendiamoci: il referendum deve riuscire a raggiungere il quorum. Cosa per niente scontata. Primo, perché così è andata nella storia neanche più tanto recente dei referendum: si sono rivelati quasi sempre un flop. Secondo perché il centrodestra non si è stancato di lanciare appelli all’astensione: non andate a votare hanno detto tutti i partiti della maggioranza, e financo il presidente del Senato. Giorgia Meloni, giusto per delicatezza istituzionale, ha annunciato che andrà al seggio ma non ritirerà le schede e quindi la sua sarà tecnicamente una astensione. Se le cose andranno come si spera a Palazzo Chigi, il centrodestra sarà pronto ad interpretare l’esito come un clamoroso boomerang della sinistra che potrebbe «essere andato per battere e finì battuto». Se poi, come vuole la tradizione, i partiti dell’opposizione finiranno per scaricarsi addosso reciprocamente la responsabilità del flop, la destra non potrà che gongolare.

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