Ripartire da Gaza oltre l’odio e l’orrore

MONDO. L’ira di Israele si abbatte sulla striscia di Gaza. L’exclave palestinese dopo il ritiro delle colonie e delle truppe di Tel Aviv, nel 2005, doveva diventare la Singapore palestinese e invece è una specie di canile a cielo aperto larga una decina di chilometri e lunga quaranta, entro la quale vivono ammassati due milioni di persone.

Uomini, donne, vecchi e bambini ora preda del furore di un popolo ferito al cuore, che ha subito - come dicono i giornali ebraici - «la sua seconda Shoah»: una strage di civili innocenti orrenda perpetrata dagli assassini di Hamas, il partito islamista di terroristi che ha vinto le elezioni del 2006 e che nel suo statuto ha la cancellazione del popolo ebraico, condannando i palestinesi a un controllo brutale, a un embargo di cielo e di mare e a condizioni economiche di povertà estrema, grazie anche allo sfruttamento dei commercianti egiziani.

A Gaza, prigione a cielo aperto sotto assedio – un assedio che secondo le Nazioni Unite viola il diritto internazionale - gli israeliani hanno tolto la luce e l’acqua, come negli assedi medievali (l’Onu lo considera crimine contro l’umanità). Nelle sue viscere, nel dedalo di tunnel sotterranei a decine di metri di profondità, sono nascosti gli oltre cento ostaggi rapiti nel giorno più buio: militari, giovani, bambini probabilmente incarcerati in situazioni orrende.

A Gaza, al momento in cui scriviamo, si prepara una carneficina, molto probabilmente di innocenti che hanno poco a che vedere con i terroristi di Hamas (sono già morti 150 bambini palestinesi), i cui capi sono protetti all’estero, in Iran o in Qatar o in altri posti del mondo. Da quei luoghi muovono i fili della violenza e dell’orrore, arrivando a decretare come Erode il massacro di 40 bambini israeliani nel kibbutz di Kfar Aza.

A Gaza, la città dell’odio, la città mattatoio stretta d’assedio, sembra proprio che Dio sia morto. Ma è proprio da Gaza che gli uomini di buona volontà dovrebbero ripartire, dopo aver condannato senza se e senza ma le azioni orribili dei terroristi che hanno il controllo di quel formicaio da cui sono partiti migliaia di razzi e di missili verso Israele, oltre ai commandos della morte che hanno invaso Israele e che hanno straziato vittime innocenti, famiglie intere.

Ora è difficile parlare di pace, speranza o addirittura futuro. Ma è proprio ora che è necessario non smettere di avere fiducia nell’uomo e nella pace. Una responsabilità che riguarda gli Stati che possono mediare, alle organizzazioni che devono richiamare il rispetto dei diritti umani, alla condanna delle violenza che genera altra violenza. Come in Ucraina. Come in Kosovo. Come in Sudan. Come in altri luoghi teatro di guerre etniche. Come ha detto il cardinale Pizzaballa, Patriarca latino di Gerusalemme, bisogna attendere che le armi cessino di parlare per poi tornare a riprendere i fili del dialogo e della pace. È fondamentale il ruolo delle associazioni del territorio, delle autorità civili e religiose, delle varie realtà cristiane, musulmane, ebraiche. La violenza non è la soluzione, è solo una spirale di odio senza fine, come insegna la storia di questi territori. Sperando che il popolo palestinese si riappropri dei suoi governanti e non deleghi il potere a un’organizzazione di terroristi. Alla luce di quello che stiamo vivendo è essenziale guardare il mondo dalla parte delle vittime, di Abele e non di Caino. Poiché è il seme di Abele che ha generato i tanti Noè che nella storia hanno salvato il mondo.

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