Rispetto per i popoli, è la pace di Francesco

MONDO. Prima aveva chiamato il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, 20 minuti di telefonata domenica scorsa per discutere della situazione a Gaza e «individuare percorsi di pace».

E ieri ha parlato con il presidente turco Recep Erdogan. Papa Francesco ha deciso di rafforzare l’azione diplomatica della Santa Sede sul conflitto in Medio Oriente. Ma se nel caso di Biden era stato il Papa a telefonare, ieri ha risposto alla chiamata di uno dei leader che più si sono esposti per difendere l’incolumità dei palestinesi a Gaza e che contestualmente hanno condannato con maggior forza le azioni militari degli israeliani nella Striscia, spiegando al Papa che essi hanno raggiunto «il livello del massacro».

Francesco ha rinnovato il suo dolore, ma al contempo ha confermato al presidente turco la posizione della Santa Sede, che è quella di due popoli e due Stati e ha approfittato della circostanza per sottolineare che non va dimenticata la questione di Gerusalemme, per la quale il Vaticano da tempo auspica uno Statuto speciale garantito internazionalmente.

La Santa Sede è molto preoccupata per la crisi, giudicata più grave che in passato, anche per via della violenza non solo militare che Hamas ha messo in campo. L’assalto ai kibbutz e alle cittadine intorno alla Striscia hanno assunto la forma dei pogrom contro gli ebrei che l’Europa, soprattutto ad est, aveva visto a cavallo tra il secolo Ottocento e Novecento. La necessità di difendersi dagli assalti aveva fatto nascere il movimento sionista, che era soprattutto un ideale politico. Poi l’umanesimo sionista è stato inquinato dal militarismo israeliano con la guerra del 1948, gli arabi profughi e la Terra promessa che diventava Stato di Israele.

Hannah Arendt, la grande filosofa ebrea, aveva messo in guardia già allora dalla deriva: «Se i sionisti continueranno ad ignorare i popoli del Mediterraneo… dovrebbero essere consapevoli che un tale stato di cose porterà inevitabilmente a una nuova ondata di odio antiebraico». Tutti sappiamo come sono andate le cose.

La Santa Sede e le Chiese locali in Medio Oriente hanno sviluppato una posizione complessa proprio per il rispetto che il Vangelo chiede per tutti i popoli e per il dialogo con ebrei e musulmani, oltre che per la promozione della giustizia e della pace tra israeliani e palestinesi.

Le Chiese locali sanno bene inoltre cosa significa una quotidianità di discriminazione e occupazione. In questi giorni il Patriarca di Gerusalemme Pierbattista Pizzaballa lo ha raccontato in decine di interventi, cosa mai accaduta prima. La Santa Sede teme che la risposta di Israele, che già non è proporzionata nei numeri delle vittime palestinesi, possa far precipitare la situazione come non si era mai visto prima, con una decisa scelta della Comunità internazionale per le ragioni di Tel Aviv, spazzando via storia e diplomazia lunghe oltre cent’anni.

Già nel 1993 l’allora patriarca Michel Sabbah, primo capo palestinese dei latini a Gerusalemme per volontà di Giovanni Paolo II, aveva chiesto davanti a un processo di pace sempre più ingarbugliato: «Dobbiamo forse essere vittima della nostra stessa storia della salvezza, che sembra privilegiare il popolo ebraico e condannare noi?».

Domanda certamente teologica, ma anche molto politica e diplomatica, che oggi di fronte al balbettio di tutte le Cancellerie il Papa ripropone, chiedendo di fermarsi e di far ripartire dall’inizio il processo di pace, cioè da quella Risoluzione 181 del 27 novembre 1947, che prevedeva due Stati e uno statuto speciale per Gerusalemme, perché lì hanno riportato tutto, la violenza di Hamas e la risposta di Israele. Compresa la confusione drammatica tra antisionismo e antigiudaismo.

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